La notizia ha girato sugli schermi televisivi e sui quotidiani soltanto per un giorno; poi, le tumultuose vicende dell’elezione del Capo dello Stato l’hanno oscurata. Ma c’è d’aspettarsi che, al pari di un fiume carsico, tornerà di nuovo in superficie alla prossima occasione. Perché ormai è parte di quella schiera di luoghi comuni che tutti accettano come verità rivelate: i pensionati sono poveri. Così, nei giorni scorsi, dopo l’ouverture sugli esodati ecco che l’orchestra ha intonato la sinfonia delle pensioni inadeguate e degli anziani sofferenti e vilipesi.



L’Istat, per l’ennesima volta, ci ha raccontato che il 44% dei pensionati percepisce una prestazione inferiore a mille euro mensili (e quindi non è sottoposta – almeno – al taglio dell’indennità di rivalutazione che opera su trattamenti più elevati). Nel fornire queste cifre l’Istituto di statistica dimentica di ricordare (il bisticcio di parole è voluto) che le famiglie la cui persona di riferimento è un pensionato dispongono mediamente di un maggior numero di redditi (ancorchè singolarmente più modesti) della famiglia monoreddito di un lavoratore. Di conseguenza, il reddito complessivo di una famiglia di pensionati finisce per essere superiore a quello del nucleo di un lavoratore con coniuge e figli a carico.



I dati, almeno tengono conto di un aspetto solitamente non considerato quando si parla di pensioni con la sintesi del linguaggio televisivo: guai a confondere pensioni e pensionati. Le prime sono, nel complesso, circa 23 milioni, i secondi 16,5 milioni. Ciò significa che un numero significativo di prestazioni di carattere monetario (più di 6 milioni) viene redistribuito sulla medesima platea. Pertanto, una quota importante di anziani percepisce due o più pensioni; quindi è corretto fornire il dato cumulato, peraltro a disposizione nel Casellario delle pensioni presso l’Inps. Il caso è più frequente nelle donne, che sopravvivono ai loro mariti e che pertanto aggiungono al loro trattamento anche quello di reversibilità.



Questa delucidazione ne richiama subito un’altra.  Quando si fanno le medie, di solito non si distingue tra le diverse tipologie di pensione. Così ad abbassarne il valore contribuiscono i trattamenti di invalidità e di reversibilità che sono – per tanti motivi, anche normativi – di importo più modesto. Se si considerassero separatamente le pensioni di vecchiaia e, soprattutto, quelle di anzianità vi sarebbero livelli medi sicuramente più elevati.

Tutto ciò premesso è bene svolgere una considerazione di carattere più generale. Solitamente, quando giornali e tv sparano dei dati sulle pensioni (riconosciamo che in ogni caso non c’è da stare allegri) danno l’impressione di ritenere che, nell’ultima fase della vita delle persone, lo Stato si trasformi in una buona fatina che assicura agli anziani un trattamento corrispondente ai loro bisogni, a prescindere dalla posizione previdenziale che essi sono stati in grado di predisporre durante la vita attiva.

Le pensioni sono condizionate, da un lato, dalle retribuzioni dei lavoratori attivi, che, nel modello di finanziamento a ripartizione, fanno fronte con i loro versamenti contributivi ai relativi oneri dello stock dei trattamenti in essere. Non è immaginabile, allora, che una persona migliori la sua condizione economica nel momento in cui smette di lavorare e che dei livelli retributivi medi come quelli erogati in Italia a chi è tuttora nel mercato del lavoro possano sostenere pensioni di tanto superiori ai mille euro mensili.

Dall’altro lato, l’importo della pensione è la conseguenza della storia lavorativa di una persona: a determinarne la qualità non possono essere del tutto escluse le sue responsabilità personali. O collettive di un intero settore. E’ inutile, da questo angolo di visuale, che le organizzazioni agricole lamentino la modestia dei trattamenti riconosciuti agli iscritti della relativa gestione, quando essa è in grado di pagare le pensioni grazie ai robusti apporti di solidarietà (per diversi miliardi all’anno) da parte delle altre gestioni e dei trasferimenti dello Stato. Peraltro, il sistema attuale prevede un intervento di carattere solidaristico a carico della finanza pubblica nell’ordine di 25 miliardi l’anno per garantire l’integrazione al minimo a favore dei milioni di prestazioni che, sulla base del puro calcolo dei contributi versati, non arriverebbero a conseguire neppure il livello minimo legale.

Ed è, appunto, questo uno dei fronti di attacco su cui intervenire per correggere le distorsioni dell’attuale sistema contributivo che non ha più al proprio interno alcun meccanismo solidaristico. Per garantire, in futuro, prestazioni pensionistiche più adeguate, va cambiata la struttura stessa del sistema previdenziale, superando uno dei limiti della riforma del 1995 consistente nella mancanza di un istituto rivolto alla solidarietà infragenerazionale, che, nel modello retributivo, era assicurata dall’integrazione al minimo. 

Occorre orientarsi alla costruzione di un sistema pensionistico pubblico basato su due componenti o “pilastri”, entrambi a carattere obbligatorio: una pensione di base finanziata dalla fiscalità generale, destinata a garantire, sia pure mediante la presenza e la maturazione di alcuni requisiti, a tutti i cittadini anziani prestazioni minime necessarie alle loro esigenze di vita; e una pensione di secondo livello, calcolata secondo il vigente sistema contributivo, volta a garantire prestazioni aggiuntive correlate ai contributi versati dai singoli soggetti nel corso della loro vita.