A voler risalire agli antenati dello stabilimento Ilva di Taranto dovremmo spingerci fino al ventennio fascista quando venne costruito l’impianto di Cornigliano, in cui si era compiuto il salto tecnologico della lavorazione a ciclo integrale. Anni dopo, ormai alla fine del secondo conflitto mondiale, quell’impianto fu smantellato dalle truppe tedesche in ritirata. Si trattava, comunque, di eventi eccezionali che si immaginavano non più ripetibili. Un esercito invasore evita di lasciare nelle mani del nemico che avanza un punto produttivo importante come uno stabilimento siderurgico. Per renderlo inoperante non ha bisogno di usare il tritolo: è sufficiente chiudere l’area a caldo. Ma contro chi sono in guerra, a Taranto, la Procura e il Gip che ne asseconda tutte le scelte anche le più temerarie? Si sono mai visti dei magistrati prendersela con tanto accanimento nei confronti di uno stabilimento che rappresenta l’acciaieria più grande d’Europa, che sostiene l’occupazione e l’economia di una vasta area del Mezzogiorno ed è un pezzo strategico del nostro apparato produttivo?



Eravamo convinti che fosse arrivato il momento di una tregua, dopo il decreto legge del Governo Monti, convertito a larga maggioranza dal Parlamento nella passata legislatura, poi ritenuto corretto da parte della Consulta a cui era ricorsa la Procura di Taranto; dopo lo sblocco del prodotto finito (quando mai dei freddi pezzi di acciaio incorporano in sé il reato?!) che giaceva da tempo sulle banchine del porto, senza che l’azienda potesse incassare quelle risorse utili a pagare le competenze spettanti ai lavoratori. Del resto che l’azienda e l’ambiente vadano risanati è un’esigenza ormai condivisa da tutti, tanto che ne sono prescritte le disposizioni e previste le risorse, pubbliche e private, necessarie. Ma il risanamento non può essere effettuato con lo stabilimento fermo, per tante buone ragioni che sono state più volte spiegate.



Non si tratta di un’opinione, ma di un fatto tecnico (chiudere l’area a caldo è come uccidere lo stabilimento di Taranto e quelli collegati) ed economico. Per poter investire nella tecnologia necessaria al risanamento la fabbrica deve stare sul mercato e recuperare almeno una parte del fabbisogno finanziario richiesto per quell’opera di bonifica ambientale (necessariamente graduale e rispondente agli standard di sicurezza stabiliti a livello europeo e non secondo qualche cervellotica valutazione di un pm), che è diventata la condizione irrinunciabile per la continuità produttiva di impianti strategici per il sistema industriale italiano (sei milioni di tonnellate dell’acciaio prodotto sono destinate alle imprese del Nord, di cui due milioni nella sola Lombardia). 



Che senso ha avuto, allora, il sequestro degli 8 miliardi che ha determinato le dimissioni di tutto il consiglio di amministrazione e dello stesso Enrico Bondi? Produrre l’acciaio non è come lavorare (con tutto il rispetto) all’Agenzia del Territorio o a Poste Italiane. Ai tempi dei nostri nonni e bisnonni si moriva di fame, di pellagra, di malaria, magari di influenza (ricordate la cosiddetta Spagnola che seminò milioni di vittime nel mondo?) a un’età in cui, oggi, i giovani si chiedono se è venuto il momento di lasciare la casa paterna e mettere al mondo dei figli. Adesso, anche le patologie sono differenti. Ma, allora come oggi, vi è sempre un saldo rapporto tra l’essere umano e l’ambiente in cui vive.

Dal Paradiso Terrestre Adamo ed Eva furono cacciati milioni di anni fa. Da allora nessuno ci ha più rimesso piede. Nell’economie moderne vengono stabilite delle regole allo scopo di conciliare i processi produttivi – specie se particolarmente inquinanti – con la difesa della salute delle persone e della salvaguardia del territorio. Queste regole, tutto sommato, sono una conquista abbastanza recente e sono venute dopo fasi in cui è stato consentito il saccheggio della natura e il disinteresse per le condizioni di sicurezza dei lavoratori. In Europa sono stati stabiliti persino standard comuni, che “fanno la differenza”, se solo si pensa che, nell’epoca della globalizzazione, anche i vincoli posti a tutela della salute e a difesa dell’ambiente finiscono per far parte dei problemi di competitività.

Insomma, quale deve essere la linea di condotta corretta per un’impresa? Applicare di volta in volta gli standard vigenti (necessariamente mediati con le esigenze produttive, con l’ammortamento degli investimenti e con gli assetti in atto nei paesi concorrenti) oppure sottoporsi a giudizi diversi caso per caso, senza avere nessuna sicurezza o stabilità dei costi? Facciamo attenzione. La logica che conduce i pm tarantini è la stessa che può portare un loro zelante collega, in cerca di fama, a constatare che nella sua giurisdizione le auto circolanti rilasciano molte polveri sottili e che magari vi è stato un incremento dei casi di cancro, e a emanare, di conseguenza, un provvedimento di sequestro della Fiat e di tutte le auto circolanti, come corpi del reato. L’Ilva non è chiamata a rispondere solo dei danni che provoca oggi e se i suoi impianti sono a norma con quanto prescritto in sede europea e nazionale, ma degli effetti di una situazione precedente, magari creata quando non si chiamava Ilva ma Italsider (lo ricordiamo alle “anime belle” che invocano la nazionalizzazione).Il tumore non è una malattia che si contrae all’istante, ma, purtroppo, di solito, la conseguenza di processi organici che vengano da lontano.

In ogni caso, se un commando terrorista prendesse di mira l’altoforno e lo facesse esplodere, il risultato non sarebbe diverso da un singolare rito che, in quella città, viene usato per “fare giustizia”.

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