Nel dibattito politico vengono affrontati in maniera separata due argomenti: come modificare la riforma Fornero sulle pensioni e come creare nuovo lavoro per i giovani. I due interventi si muovono in direzione opposta e fanno riferimento a soggetti diversi: il primo – diciamoci la verità – pensa solo a tutelare gli anziani; il secondo, è rivolto ad agevolare l’accesso dei giovani nel mercato del lavoro, attraverso un forte abbattimento del cuneo fiscale e contributivo (è questa la via indicata tanto dai partiti, quanto dalle forze sociali).
Ovviamente, la realizzazione del secondo obiettivo (ammesso che la misura ottenga via libera dall’Ue e non venga annoverato tra gli aiuti di Stato) finirebbe per nuocere al primo, in quanto – nel contesto del finanziamento a ripartizione – verrebbe meno una parte del gettito contributivo per pagare le pensioni in essere. Peraltro, in materia di pensioni tira un’aria mefitica di controriforma. Le proposte riguardanti il cosiddetto pensionamento flessibile, che si apprestano a iniziare il loro iter alla Camera, sono, di certo, “politicamente corrette”, come se facessero parte del libro Cuore della previdenza, ma non si misurano con gli oneri che si renderebbero necessari.
Nell’iniziativa politica in corso, il criterio della flessibilità del pensionamento (con un requisito anagrafico minimo di 62 anni e uno massimo di 70, ragguagliati a un meccanismo di disincentivi/incentivi, a fronte di un’anzianità contributiva di almeno 35 anni) ha trovato posto in un progetto di legge presentato, come primo firmatario, dal neo presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. Nei fatti, tale impostazione finisce per abbassare i requisiti anagrafici e contributivi previsti dalla riforma Fornero, determinando, quindi, i conseguenti effetti economici negativi, proprio mentre l’Inps ha richiamato l’attenzione su di un risparmio di 80 miliardi in un decennio (al netto delle risorse di oltre 9 miliardi, impegnate a regime nella tutela degli esodati) derivante dall’introduzione delle nuove regole.
Il progetto reintroduce, nella sostanza, il trattamento di anzianità (sulla base, unicamente, di un requisito contributivo di 41-42 anni) e riporta indietro l’età pensionabile di vecchiaia. Tutto ciò senza neppure risolvere in modo strutturale – come si vorrebbe – la questione dei cosiddetti salvaguardati. A questi soggetti, in generale, non è precluso, alla luce della riforma Fornero, l’accesso alla pensione a causa di un requisito contributivo insufficiente (quasi tutti sono in grado di fare valere più di 35 anni di versamenti), ma in conseguenza di un’età, a volte, parecchio inferiore alla soglia (assunta come minima) di 62 anni. In pratica, allora, la proposta Damiano si applicherebbe a tutti i lavoratori, “esodandi” o no, lasciando aperta la questione degli “esodati”, i quali presenteranno il conto a partire dal 2015 (essendo risolti i casi insorgenti nel 2013 e 2014). Con inevitabile ricarico dei relativi oneri.
Si dimostra, così, la ragione per la quale i progetti di revisione del sistema pensionistico sono destinati, in pratica, a difendere i lavoratori anziani di oggi, non i giovani che saranno pensionati domani. Qual è infatti la preoccupazione di questi ultimi? Non tanto quella di vedersi applicare il calcolo contributivo, perché il nuovo sistema (ci avvaliamo di termini strettamente giuridici) non produce, a fronte di una continuità e regolarità di lavoro, un “danno emergente”, ma solo un “lucro cessante”, in quanto vengono meno le rendite di posizione dipendenti dal modello retributivo. Se un neoassunto ha la fortuna di lavorare a lungo e senza interruzioni andrà in pensione con un tasso di sostituzione socialmente sostenibile, anche sottoponendosi al calcolo contributivo.
L’incerta prospettiva pensionistica dei giovani non deriva, dunque, dalle regole dell’accreditamento dei contributi e dal meccanismo di calcolo della prestazione, ma dalla loro condizione occupazionale precaria durante la vita lavorativa. Una carriera contraddistinta da un accesso tardivo al lavoro, da rapporti interrotti e discontinui (senza potersi giovare, inoltre, di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che cucia tra di loro i differenti periodi lavorativi, magari contraddistinti da rapporti regolati da regimi differenti) finirà per influire negativamente anche sulla pensione.
Ecco allora l’idea da esplorare: mettere in sinergia le politiche a favore dell’occupazione dei giovani con un riordino del sistema pensionistico che abbia lo sguardo rivolto in avanti. I capisaldi di questa ipotesi sono i seguenti: 1) la riforma dovrebbe valere solo per i nuovi occupati (quindi per i giovani); 2) i versamenti sarebbero effettuati sulla base di un’aliquota uguale – e pari al 24% – per dipendenti, autonomi e parasubordinati (si può valutare una certa gradualità nell’operazione), dando luogo a una pensione obbligatoria di natura contributiva; 3) sarebbe istituito per questi lavoratori un trattamento di base finanziato dalla fiscalità generale che faccia da zoccolo della pensione contributiva o svolga un ruolo di reddito minimo per chi non ha potuto assicurarsi un trattamento pensionistico; 4) per quanto riguarda il finanziamento della pensione complementare sarebbe consentito – soprattutto laddove non vi è la possibilità dell’uso del Tfr – l’opting out volontario di alcuni punti di aliquota contributiva obbligatoria.
Questa proposta andrebbe attentamente approfondita soprattutto sul piano dei costi, che sarebbero comunque inferiori a quelli teoricamente ipotizzati nei piani del governo. Essa realizzerebbe una convenienza a effettuare nuove assunzioni grazie alla previsione di un’aliquota contributiva più ridotta di ben 9 punti (e quindi grazie alla diminuzione del costo del lavoro), la cui unificazione al ribasso aiuterebbe a rendere “neutrale”, almeno dal punto di vista pensionistico, la tipologia scelta per il contratto di assunzione. La pensione di base compenserebbe i minori accreditamenti secondo il modello contributivo.
La riforma, nel suo complesso, riguarderebbe circa 400-500mila unità all’anno (la nuova occupazione, sempre che riparta l’economia). E, quindi, presenterebbe un grado di sostenibilità ben superiore rispetto a quella derivante dalla somma dei due interventi a cui sta lavorando il governo.