Quest’anno la Covip, la Commissione di vigilanza dei fondi pensione, pur avendo predisposto la consueta Relazione istituzionale per il 2012, non ha ritenuto opportuno presentarla (come avveniva da un ventennio) nel corso di una manifestazione pubblica. Il motivo di questa scelta è abbastanza banale, ma significativo della condizione in cui versa il settore (la Covip, peraltro, ha rischiato, nei mesi scorsi, di essere assorbita, nei fatti, insieme all’Isvap, dalla Banca d’Italia): dei due commissari ne è rimasto uno solo – Rino Tarelli – che non è neppure presidente e che non ha ritenuto opportuno promuovere in totale solitudine un evento ufficiale di tale importanza. Insomma, nella legislatura appena terminata la previdenza complementare è stata dimenticata dai governi (e dalle Parti sociali), tanto che oltre la metà dell’incremento (1,4 milioni) realizzatosi tra il 2006 e il 2012 (le adesioni sono passate da 3,1 milioni a 5,8 milioni) si è concentrato nel primo semestre del 2007, termine entro il quale doveva essere esercitata l’opzione per il conferimento del tfr.
In questo periodo si realizzò una discreta campagna di informazione che costituì l’ultima occasione di interesse pubblico per il settore. Tuttavia 5,8 milioni i lavoratori (dipendenti e autonomi) iscritti a una forma di previdenza complementare privata (fondi negoziali, aperti, preesistenti al 1993, piani individuali) sono pur sempre pari al 25,5% degli occupati. Come è scritto nella Relazione per il 2012 della Covip a sei anni dal significativo riordino del 2007 «il quadro delle adesioni alla previdenza complementare non può ritenersi soddisfacente», anche se va notato che il sistema ha accumulato risorse per oltre 104 miliardi di euro (6,7% del Pil).
Di questi, ben 48 miliardi di risorse destinate alle prestazioni sono detenuti dai cosdidetti fondi preesistenti (ovvero operanti prima del 1993 a cui sono iscritti 660mila lavoratori), 30 miliardi dai fondi negoziali (istituiti dalla contrattazione collettiva a cui aderiscono quasi 2 milioni di lavoratori), 10 miliardi dai fondi aperti (promossi dai soggetti di mercato a cui aderiscono 900mila lavoratori). Interessante è segnalare la diffusione dei Pip (i piani individuali di pensionamento) che tra “vecchi” e “nuovi” hanno quasi 2,3 milioni di aderenti con riserve che, sommate, sono pari a circa 16 miliardi.
La previdenza a capitalizzazione si concentra in prevalenza nel settore del lavoro dipendente privato (4,16 milioni); nel settore pubblico ci si ferma a solo 154mila; i lavoratori autonomi sono 1,5 milioni. Nelle regioni settentrionali, dove è più diffusa la struttura produttiva e dei servizi, la quota degli iscritti – 29% rispetto agli occupati – è superiore alla media nazionale. La Lombardia svetta con il 30%. Il peso della crisi è stato avvertito anche dalle forme di previdenza complementare. Nel corso del 2012 circa 1,2 milioni di iscritti non hanno alimentato la loro posizione individuale mediante versamento di contributi. Questi superano di ben 100mila unità gli inadempienti dell’anno precedente. Un quinto dei contribuenti non versanti (in maggioranza lavoratori autonomi) aveva una posizione individuale al di sotto dei 100 euro, in tutto 230mila persone. Così, se si riporta la quota degli aderenti al numero di coloro che versano regolarmente i contributi, la percentuale scende al 20,2%.
La previdenza complementare non è un’opportunità per i giovani: solo il 18% dei lavoratori con meno di 35 anni è iscritto a una forma pensionistica, mentre il tasso di partecipazione sale al 24,7% per coloro che sono compresi tra 35 e 44 anni, e al 30,2% per quelli tra 45 e 64 anni. L’età media degli aderenti è 44,6 anni, superiore all’età media degli occupati (42 anni). La previdenza privata non è neppure un’opportunità per donne. Le lavoratrici iscritte sono pari al 37,4% del totale (sia pure in crescita di almeno sei punti), mentre gli uomini il 62,6%. Nel 2007, nel 2008 e nel 2011 il rendimento dei fondi è stato inferiore a quello ex lege del tfr. Nel 2012 è ammontato al 9,1% contro il 2,9%.
L’unica idea nuova in materia era contenuta nella riforma Fornero. Veniva affidato a una Commissione di esperti l’incarico di proporre, entro il 2012, «eventuali forme di decontribuzione parziale dell’aliquota contributiva obbligatoria verso schemi previdenziali integrativi, in particolare a favore delle giovani generazioni». Si sarebbe trattato di consentire a un lavoratore, in particolare se giovane e privo di un rapporto di lavoro dipendente (quindi nell’impossibilità di avvalersi del tfr per aderire a un fondo), di destinare al finanziamento di una forma di previdenza complementare una parte della sua contribuzione obbligatoria, distribuendo, così, il proprio rischio previdenziale su di una quota pubblica a ripartizione e una privata a capitalizzazione, senza dover sostenere maggiori oneri (l’esperienza pratica dimostra che i giovani non si accostano ai fondi pensione proprio perché non dispongono di ulteriori risorse rispetto a quelle che sono tenuti a versare alle gestioni obbligatorie).
Mediante le soluzioni di opting out si sarebbe ottenuta certamente una copertura pubblica inferiore, ma sarebbe stato possibile ottenere rendimenti più generosi sui mercati, in un periodo medio-lungo. Ma tutto ciò è finito in grembo a Giove.