Un fantasma si aggira – in Europa e in Italia – tra i meandri di un sistema di welfare divenuto finanziariamente insostenibile e socialmente inadeguato, se non addirittura iniquo: le politiche di assistenza agli anziani e alle persone non autosufficienti, un problema che è destinato ad aggravarsi anche in termini di risorse da destinare al settore. Nei paesi dell’Ue, la spesa per assistenza a lungo termine (quella italiana è già al di sotto della media europea) dovrebbe crescere, entro il 2050, di un altro punto rispetto all’attuale 1,3% del Pil. A ogni legislatura, da più parti, viene riproposta, con la presentazione di disegni di legge più o meno tutti uguali, l’idea di un Fondo di mano pubblica, predisposto sul modello tedesco e finalizzato alla protezione delle persone non autosufficienti. Le difficoltà sorgono quando si passa al finanziamento del progetto, dal momento che non sembrano compatibili con la situazione generale del Paese – anche in tempi meno precari degli attuali – tanto un ricorso alla fiscalità generale, quanto un inasprimento contributivo.

In verità, se si avesse il coraggio di attuare una politica redistributiva della spesa sociale, si potrebbero anche reperire le risorse per affrontare un problema destinato a divenire, di anno in anno, più acuto se solo si osservano gli indicatori demografici. Eppure, l’Italia non parte da zero. Per il settore dell’invalidità civile lo Stato eroga all’Inps circa 17 miliardi l’anno (un ammontare in rapida espansione) di cui 5 miliardi vanno a finanziare le pensioni agli invalidi civili e 12 miliardi l’assegno di accompagnamento. I soggetti percettori sono più di 2,7 milioni.

Il difetto principale delle iniziative finora pensate e adottate sta nell’aver concepito il Fondo per la non autosufficienza sul modello del Fondo sanitario nazionale. Senza riuscire mai a combinare insieme i cosiddetti livelli di assistenza da garantire ai cittadini e le risorse disponibili. Al dunque, senza rendersene conto, in Italia abbiamo inventato – con l’esperienza delle cosiddette badanti – un modello di assistenza che mantiene l’assistito nel suo domicilio e che ha dato lavoro a più di un milione di persone, in larga maggioranza straniere e donne. In questo quadro – la realtà non va contrastata in nome delle ideologie, ma regolata e assecondata – sarebbero utilmente percorribili anche altre vie – private e volontarie in un contesto di regole pubbliche – magari a sostegno e a integrazione del solito percorso pubblico, mediante forme di finanziamento con il criterio della capitalizzazione. Così, si potrebbe, innanzitutto, prefigurare uno strumento assicurativo a largo spettro, in grado di contenere i costi di adesione e di concentrare un buon livello di prestazioni sui soggetti bisognosi.

Per realizzare tali obiettivi, in condizioni di economicità, occorre allargare il più possibile la platea dei contribuenti, sia pure seguendo un itinerario di natura privata. L’idea, a cui occorre fornire una cornice legislativa e di una concertazione sociale, è la seguente: in un contesto di regole-quadro, bisognerebbe concordare con l’Ania e con le principali compagnie di assicurazione, individuate tramite gara, una polizza standard contro il rischio della non autosufficienza (esistono già studi in materia). Tale polizza dovrebbe prevedere, nel caso di non autosufficienza accertata, l’erogazione di voucher per l’acquisto di servizi alla persona – per un valore determinato e per un tempo prestabilito – che siano offerti da soggetti fornitori appositamente accreditati.

Per contenere il costo unitario della polizza (ecco le finalità della concertazione) occorrerebbe ricercare la collaborazione dei grandi soggetti collettivi (sindacati, cooperazione, associazionismo di vario tipo, legato alle problematiche degli anziani, ecc.), nel senso di inserire la polizza nell’ambito della contrattazione collettiva e nel novero dei servizi che i soggetti stessi offrono ai loro iscritti tramite la quota associativa. La polizza sarebbe, poi, collocata liberamente sul mercato a disposizione di chiunque la volesse sottoscrivere per sé o per altri. In questo caso, però, il premio sarebbe ragguagliato alle caratteristiche particolari della persona che aderisce (età, condizione di salute, ecc.).

La governance sarebbe decentrata nel territorio e affidata a Casse mutualistiche (da istituire a livello regionale secondo direttive nazionali, come prevedeva addirittura la riforma Bindi del 1999 con disposizioni rimaste inattuate, nonostante l’alternarsi di governi di diverso segno politico), rappresentative dei soggetti aderenti e delle loro famiglie. Le Casse tutelerebbero gli interessi degli assicurati, accreditando i soggetti fornitori, contrattando le tariffe, vigilando sulla qualità delle prestazioni. Le polizze godrebbero di un regime di deducibilità fiscale. Le Casse mutue stipulerebbero, a loro volta, accordi con il pool di compagnie di assicurazione e sarebbero finanziate, mediante un contratto di agenzia, dalle compagnie stesse.

In sostanza, le Casse mutue così costituite diverrebbero il punto di riferimento degli iscritti per via collettiva e di coloro che si associano individualmente. Per i primi le quote di adesione sarebbero pagate dalle loro organizzazioni, per i secondi da loro stessi. Le Casse non erogherebbero prestazioni in proprio, ma stipulerebbero convenzioni con i soggetti fornitori. Le prestazioni – inclusa l’assistenza diretta alla persona – sarebbero remunerate con i voucher. Va da sé che a tale impianto, predisposto dal lato della domanda, dovrebbero corrispondere precisi criteri dal lato dell’offerta di servizi, secondo regole vigilate dalle autorità competenti.

In fondo, si tratterebbe di implementare l’esperienza già acquisita nel campo della previdenza complementare e dei fondi sanitari integrativi, allo scopo di promuovere una tutela più ricca e articolata.