Come porre rimedio alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il contributo di solidarietà posto sulle pensioni superiori a 90mila euro lordi l’anno (e oltre) e già iscritte d’ufficio nella blacklist delle cosiddette pensioni d’oro? È uno degli assilli del Governo Letta non tanto perché il mancato introito (invero molto modesto) recherà problemi ai bilanci dell’Inps e dello Stato, quanto piuttosto per l’esigenza tutta politica di ribadire e riconfermare una questione di giustizia contraddistinta da qualche concessione all’antipolitica che, in tempi come gli attuali, non guasta mai.



Ma ricapitoliamo brevemente i fatti. Nell’ambito di una manovra economica straordinaria, l’esecutivo del centrodestra, prima di passare la mano ai “tecnici” di Mario Monti (ad agosto del 2011), aveva imposto ai pensionati più ricchi un contributo di solidarietà straordinario del 5% sulla parte di assegno Inps che oltrepassava i 90mila euro e del 10% sulla quota che superava i 150mila. Poi, alla fine dello stesso anno, il governo Monti – allo scopo di trovare la copertura per altre operazioni in tema di pensioni – ha applicato un contributo di solidarietà del 15% anche sulla parte di rendita che, per pochi fortunati, superava i 200mila euro annui lordi. Interessati dal «contributo di perequazione sui trattamenti pensionistici» (così tecnicamente viene definito il prelievo) sono tutti i pensionati, sia ex lavoratori pubblici che privati, in quanto ai fini dell’individuazione dei soggetti tenuti al contributo la legge (ora cassata) non fa riferimento al rapporto di lavoro precedente al pensionamento, ma soltanto all’importo complessivo della somma intascata, considerando tutti i trattamenti, sia quelli obbligatori che quelli integrativi e complementari, erogati da Inps, ex Inpdap, nonché da enti diversi, con esclusione delle sole prestazioni assistenziali (assegni straordinari di sostegno a reddito, pensioni erogate alle vittime del terrorismo, rendite Inail).



Secondo la Corte costituzionale, tale prelievo aveva natura tributaria, poiché determinava «una decurtazione patrimoniale definitiva del trattamento pensionistico, con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare». Quando si parla di Fisco, però, le richieste devono essere commisurate alla «capacità contributiva» (secondo l’articolo 53 della Costituzione) dei cittadini, che sono «eguali davanti alla legge» (così recita l’articolo 3), e non si può distinguere tra tipologie di reddito per penalizzare alcuni o premiare altri. La somma in gioco non è decisiva, sono 25 milioni di euro l’anno. E questo perché le pensioni ricche rappresentano una piccola quota stimata in 33 mila quelle sopra i 90 mila euro, appena 1.200 oltre quota 200 mila euro. Ma – come si dice – contano anche i principi.



Che fare allora? In proposito sono circolate differenti ipotesi. Relativamente al contributo di solidarietà (che la Consulta aveva ammesso in altre circostanze purché si trattasse di una misura dotata di ragionevolezza e temporaneità) si è fatto notare da più parti che le cosiddette pensioni d’oro non sono inique di per sé, se sorrette da contributi versati, ma lo diventano soltanto per effetto della “rendita di posizione” conferita, eventualmente, dall’applicazione del sistema retributivo. Si potrebbe, allora, effettuare per i trattamenti in atto, liquidati con il modello retributivo e superiori a un certo importo (5mila euro mensili lordi, in linea con l’intervento sulla rivalutazione), un ricalcolo secondo i criteri del sistema contributivo, operando, se del caso, una ritenuta congrua sullo scostamento tra i due differenti importi.

Tale procedimento sarebbe tecnicamente possibile per le prestazioni dell’Inps (l’Istituto detiene le posizioni contributive informatizzate di tutti i lavoratori a partire dal 1974). Sorgerebbero dei problemi, difficilmente sormontabili, nel caso del pubblico impiego e soprattutto dei dipendenti dello Stato la cui Cassa è stata istituita nel 1995, mentre in precedenza erano le amministrazioni che continuavano a erogare direttamente, al loro personale, la pensione una volta che fossero cessati dal servizio. Si potrebbe poi, alla buon ora, chiedere un contributo alle pensioni baby (sono 500mila per un onere annuo di 9,5 miliardi) da calcolare sulla differenza tra l’importo dell’assegno e quello del trattamento minimo.

In altri ambienti si è pensato di rifarsi non attraverso la strada del contributo di solidarietà, bensì mediante quella più complicata e laboriosa della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici. Per quanto riguarda tale problema non sembra sostenibile sul piano costituzionale una soppressione della rivalutazione automatica al costo della vita sui trattamenti più elevati. Diverso, sicuramente più giusto e opportuno, sarebbe un provvedimento di carattere strutturale che rimodulasse al ribasso le aliquote di rivalutazione in rapporto alle fasce di reddito.

Oggi, in condizioni normali, le aliquote sono tre: una del 100% dell’inflazione fino a 1400 euro mensili circa; un’altra del 90% per la fascia da 1400 a 2400 euro; oltre questa soglia opera l’aliquota del 75% sulle ulteriori quote di pensione. Basterebbe allora introdurre, magari per le fasce superiori a 5000 euro lorde mensili un’aliquota più bassa, ad esempio del 50% e scendere ancora di più (al 30%) per la rivalutazione di fasce ancor più elevate. Oltre certi importi particolarmente alti, l’indicizzazione potrebbe anche essere abolita del tutto, ma opererebbe comunque sulle fasce più basse, in modo da rendere compatibile la misura rispetto al dettato costituzionale.