L’8 agosto la riforma delle pensioni Dini-Treu diventa maggiorenne: ricorrono cioè 18 anni dalla sua approvazione. Una delle principali novità di quella legge (che porta il n. 335 del 1995) è stata sicuramente l’istituzione presso l’Inps della cosiddetta “Gestione separata”, in cui confluirono, oltre ai pensionati che continuavano a lavorare con rapporti di collaborazione e agli iscritti ad altri regimi obbligatori limitatamente a talune forme di reddito, i collaboratori in via esclusiva definiti parasubordinati, una categoria (se così può essere definita) allora ritenuta marginale (il fatto che fosse sottoposta a un’aliquota iniziale del 10% con il calcolo contributivo denotava più un interesse del legislatore a “fare cassa” che a fornire un’adeguata copertura previdenziale a chi ne era privo) poi divenuta nel tempo centrale, in quanto la relativa condizione pensionistica ha finito per trasformarsi nella prosecuzione e nello sbocco di una vita lavorativa, precaria e discontinua, delle generazioni più giovani.



Si è determinato, quindi, un intreccio tra struttura del mercato del lavoro e regime pensionistico che si è qualificato quasi come un destino perverso a danno dei giovani, a cui il legislatore ha cercato di porre rimedio aumentando progressivamente le aliquote contributive, fino a prefigurare, con la legge Fornero del 2012, una sostanziale e graduale uniformità con il prelievo contributivo sul lavoro dipendente (con un’aliquota del 33%), non solo senza risolvere il problema, ma finendo per renderlo ancora più grave. Tanto da suscitare forti preoccupazioni per il futuro. “Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”. Queste parole allarmate di Antonio Mastrapasqua, presidente dell’Inps solitamente orientato a presentare con toni ottimistici l’avvenire del nostro sistema previdenziale, hanno evocato lo spettro di una condizione giovanile condannata irrimediabilmente alla precarietà, non solo durante la vita lavorativa, ma anche da anziani.



Per arrivare a queste drammatiche conclusioni si assumono, nel dibattito, alcuni presupposti tutti da dimostrare, e cioè che i giovani iscritti alla Gestione separata presso l’Inps siano destinati a restare perennemente rinchiusi nella “trappola della precarietà” e a percepire per l’intera vita lavorativa (caratterizzata peraltro da periodi d’intermittenza) retribuzioni modeste. Evidentemente situazioni siffatte non sono solo “casi di scuola”; ma è una forzatura ritenere che si tratti di una regola generale, di un destino immodificabile. Le pensioni – soprattutto nel sistema contributivo – dipendono inevitabilmente dai contributi versati e quindi dal livello dei redditi e dalla continuità dell’impiego. Ma quella della precarietà è una storia lunga.



Dei trattamenti pensionistici modesti – ragguagliati a storie lavorative “deboli” – sono sempre esistiti: basti ricordare che oggi vi sono 4,5 milioni di pensioni integrate al minimo, risalenti a epoche in cui la cosiddetta flessibilità (di cui tanto si straparla) non era ancora stata inventata e i rapporti di lavoro erano solo quelli standard. Una pensione minima “vale” circa 500 euro mensili lordi per tredici mensilità (a cui si aggiunge un centinaio di euro se sono riconosciute le cosiddette maggiorazioni sociali). Spesso, anche nel modello retributivo, tanti pensionati al minimo hanno maturato lunghe anzianità di servizio correlate a basse retribuzioni. La loro pensione “a calcolo”, allora, ammonta a poche centinaia di euro e richiede il soccorso dell’istituto dell’integrazione al minimo e di altre misure assistenziali, per il cui finanziamento lo Stato “gira” all’Inps circa 30 miliardi di euro all’anno di trasferimenti.

In sostanza, non c’è poi tanto di nuovo sotto il sole. Certo, i precari di una volta erano braccianti, edili, lavoratori del turismo, tutti titolari di un rapporto di lavoro alle dipendenze, contraddistinto da periodi, anche lunghi, di sospensione dal lavoro, legati ai cicli produttivi. Oggi a queste occasioni di lavoro non fa più caso nessuno, essendo la manodopera di tali settori (sicuramente importanti, anche per la ripresa) garantita pressoché esclusivamente dai lavoratori stranieri. Sono emerse, invece, nuove tipologie di lavoro precario che riguardano spesso giovani diplomati e laureati. Sarebbe sbagliato, però, trarre conseguenze sbagliate come se tutti i giovani, da un certo punto in poi, fossero stati costretti da una perfida Spectre a una vita lavorativa prossima alla povertà e destinata a sfociare in una pensione fortemente inadeguata.

In Italia occorrerebbe occuparsi più seriamente di quanti impieghi disponibili vengono rifiutati. Il problema, però, esiste per alcuni settori del mercato del lavoro. Come, nel passato, ci saranno ancora, nel futuro, tanti lavoratori che, da pensionati, riusciranno a maturare, per vari motivi, soltanto un trattamento modesto. Diversamente da quanto previsto nel modello retributivo, la riforma Dini non contempla forme di solidarietà infragenerazionale (come è la pensione minima stabilita per legge). Nel 1995 il legislatore ha “tirato diritto”, seguendo quella discutibile impostazione definita, a suo tempo, “capitalizzazione simulata”, in base alla quale il nuovo sistema contributivo non contempla più alcuna forma d’integrazione di una pensione a calcolo palesemente inadeguata. A regime, infatti, i lavoratori a cui si applica il metodo contributivo potranno andare in pensione al verificarsi di due condizioni tra loro concorrenti: aver maturato almeno cinque anni di contribuzione effettiva, sempre che il montante contributivo accreditato sia sufficiente a consentire la liquidazione di un trattamento pari all’importo dell’assegno sociale.

Per concludere, quali sono i possibili rimedi? Premesso che la “buona occupazione” la creano solo la crescita e lo sviluppo (non le norme di legge), occorre, tuttavia, migliorare il regime degli ammortizzatori sociali estendendone le prestazioni anche a quei rapporti di lavoro – in condizione di dipendenza economica – che ne sono privi. Quanto alle pensioni, è necessario applicare – anche nell’ambito del sistema contributivo e a carico della fiscalità generale – qualche forma d’intervento solidaristico (integrazione al minimo o reddito minimo) a fronte di un insufficiente “trattamento a calcolo”.

Chi scrive, insieme a Tiziano Treu, ha proposto, nella passata legislatura, l’introduzione di una pensione di base – finanziata dallo Stato – che costituisca lo zoccolo su cui poggiare la pensione maturata col versamento dei propri contributi. A quanti giustamente si preoccupano dei costi di un’operazione siffatta si può rispondere che adesso lo Stato trasferisce all’Inps circa 40 miliardi all’anno per finanziare, nel complesso, la parte assistenziale della spesa pensionistica che la legge mette a carico della fiscalità generale.