Tra i “compiti a casa” che sono stati attribuiti a Enrico Letta, alla riunione del G20 di San Pietroburgo, c’è anche l’impegno a ridurre le tasse sulla impresa e il lavoro. Così, il giovane premier, di ritorno dalla Russia, si è precipitato a Cernobbio al meeting dello Studio Ambrosetti (che non è più quello di un tempo visto che ospita persino Gianroberto Casaleggio); lì il presidente ha ribadito che il suo governo non intende accettare veti (da parte di chi, poi?), non vuole galleggiare e conferma, come priorità, l’obiettivo di ridurre il cuneo fiscale e contributivo. E per farlo avvierà un confronto con le parti sociali sulla base del documento congiunto del 2 settembre (illustrato, addirittura la sera stessa, dal presidente Giorgio Squinzi a Genova, alla Festa del Pd).



Su questo protocollo (ormai le parti sociali li producono in serie come i romanzi gialli di Andrea Camilleri) si è svolto, a Cernobbio, un siparietto tra il premier e Fabrizio Saccomanni, superministro dell’Economia. Quest’ultimo ha sostenuto che il documento congiunto è “costoso e poco realistico”, ma Letta lo ha corretto ri-salutando “positivamente l’accordo di Genova” come “un fatto importante e positivo che le parti sociali lavorino contro le tensioni e per la pace sociale” tanto che l’esecutivo lavorerà in quella direzione. Che il problema non del costo del lavoro, ma del “cuneo” esista in Italia e che sia un ostacolo allo sviluppo dell’occupazione regolare è assolutamente vero. Secondo l’Ocse, l’Italia è al secondo posto nei paesi più industrializzati aderenti, subito dopo la Francia. Fatta uguale a 100 la retribuzione media lorda quella netta è pari a 69,2, il costo del lavoro a 132,1. La differenza è, più o meno, a carico per metà sul lavoratore e sull’impresa (rispettivamente 30,8 e 32,1).



Ma chi ha ragione: Letta o il suo ministro? Il documento del 2 settembre gira al largo da questi problemi, forse considerati troppo “ragionieristici” dalle parti sociali. Dei conti, un po’ all’ingrosso, li ha fatti il capo gruppo del Pdl alla Camera Renato Brunetta arrivando a quantificare un onere annuo compreso tra i 50 e i 60 miliardi, così ripartiti: riduzione del cuneo fiscale 15 miliardi; aumento detrazioni lavoro dipendente e pensioni 10-15 miliardi; detassazione per le misure di produttività 3-5 miliardi; riduzione Irap 5 miliardi; credito d’imposta per ricerca e sviluppo 1-2 miliardi; Ace (lo strumento per incentivare il reinvestimento degli utili aziendali e la patrimonializzazione delle imprese) 2-3 miliardi di perdita di getto; fondo di garanzia per accesso al credito delle imprese 2-3 miliardi; misure di rilancio della green economy 2 miliardi. 



Esaminiamo con maggiore cura come si arriva a 15 miliardi (che poi è solo una parte del tutto), secondo Renato Brunetta. Il cuneo fiscale del fattore lavoro ammontava nel 2012 a 386 miliardi di euro di cui 166 miliardi dal gettito Ire e 220 miliardi dai contributi sociali. La componente tassazione sulle imprese ammontava invece a 71 miliardi di cui 37 dal gettito Ires e 34 miliardi dal gettito Irap. In totale 457 miliardi. Pertanto un taglio del cuneo fiscale dell’1% comporterebbe la perdita di gettito d’attesa – calcola Brunetta – di 3,9 miliardi, che salirebbero a 7,7 miliardi nel caso di un taglio del 2% e a 19,3 miliardi nel caso di un intervento del 5%.

Il governo Prodi, nel 2006, attuò un taglio del cuneo fiscale nella misura di 5 miliardi senza che le imprese – pur in una condizione economica migliore dell’attuale – ne avessero un particolare vantaggio. Per mandare un segnale forte occorrerebbe un taglio di almeno un punto di Pil ovvero di una quindicina di miliardi. Un ammontare che si aggiungerebbe agli altri impegni assunti dal governo: Imu, Iva, esodati, Cig in deroga. Insomma, il giocoliere stenta a tenere perennemente in volo le solite quattro palle. Aggiungendone un’altra potrebbe succedere il patatrac. 

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