“La nuova geografia del lavoro” (Mondadori) è un interessante saggio di Enrico Moretti, un “cervello fuggito dall’Italia” che ora insegna economia all’Università della California a Berkeley. La tesi sostenuta nel libro, corredata dai risultati di una ricerca durata anni, riguarda le profonde trasformazioni, indotte nel mercato del lavoro (non solo) americano, dall’economia postindustriale basata sul sapere e l’innovazione, sia per la tipologia dei beni prodotti, sia per le modalità e le località in cui vengono realizzati.
Per alcune regioni e città la globalizzazione e la diffusione di nuove tecnologie comportano aumento della domanda di lavoro, maggiore produttività, più occupazione e redditi più elevati. Per altre, il destino decreta chiusura di fabbriche, disoccupazione e salari più bassi. Ad avviso di Moretti, l’Italia rischia di diventare un insieme di città e distretti industriali in declino lento ma irreversibile, come dimostra la scomparsa di industrie-chiave come quelle dei computer e della farmaceutica, dove alcuni decenni or sono il nostro Paese presentava posizioni di vantaggio.
Nell’introduzione, in cui l’autore riassume i grandi filoni della ricerca, a prova delle nuove caratteristiche di quella che un tempo veniva chiamata divisione internazionale del lavoro, viene ricordato il processo produttivo dell’iPhone, un prodotto-simbolo che, nato negli Usa, ha ormai conquistato i consumatori di tutto il mondo, in particolare i giovani. L’iPhone è un prodotto ad altissimo livello di tecnologia, costituito da centinaia di componenti elettronici sofisticati, unici e delicati. Eppure – scrive Moretti – i lavoratori americani entrano in gioco solo nella fase iniziale dell’innovazione. Il resto del processo, compresa la fabbricazione dei componenti elettronici più complessi, è stato completamente delocalizzato all’estero.
Seguiamo, allora, su di un immaginario mappamondo il tragitto produttivo di questo oggetto entrato ormai nella vita di tutti i giorni. L’iPhone viene concepito e progettato da ingegneri della Apple a Copertino in California. Questa, come abbiamo già ricordato, è la sola fase “americana” nella fabbricazione del prodotto e consiste nel design, nello sviluppo del software e dell’hardware, nella gestione commerciale e nelle altre operazioni ad alto valore aggiunto. In questo stadio, il costo del lavoro è un problema secondario. Gli elementi-chiave sono la creatività e l’inventiva degli ingegneri e dei designer.
I componenti e i circuiti elettronici sono fabbricati oltreoceano a Singapore o a Taiwan. Arriva poi la fase dell’assemblaggio e della produzione vera e propria. È questa la tappa che richiede più alta intensità di manodopera in cui, pertanto, la componente costo del lavoro assume rilievo. La lavorazione dell’iPhone sbarca in Cina, in una fabbrica alla periferia di Shenzhen che è forse la più grande al mondo con i suoi 400mila dipendenti. Così, a chi compra il prodotto on line, esso viene spedito da questo kombinat che, più che a una fabbrica, somiglia a una città, con supermercati, cinema, dormitori, campi sportivi.
L’iPhone è formato da 634 componenti, ma la maggior parte del valore aggiunto proviene dall’originalità dell’idea, dalla progettazione ingegneristica e dal design. La Apple ha un utile di 321 dollari per ogni iPhone venduto, pari al 65% del totale e ben più di qualsiasi fornitore di componenti. Eppure – ricorda Enrico Moretti – l’unico lavoratore americano che tocca il prodotto finale è l’addetto alle consegne dell’Ups.
Assistiamo cosi, nella globalizzazione, a un nuovo modello di divisione internazionale del lavoro. Non si tratta più, come alcuni decenni or sono, di scaricare sui paesi emergenti i settori maturi o inquinanti o di imporre loro, come durante il colonialismo, economie prigioniere della monocoltura, soggette alle oscillazioni dei prezzi e dei mercati. Oggi la divisione avviene anche nella fabbricazione di un singolo prodotto con l’apporto del livello di tecnologia e di capacità di innovazione di cui la filiera dei paesi produttori è, di volta in volta, protagonista.