Incorrerebbe in sanzioni una società che predisponesse il proprio bilancio consolidato in maniera da trasformare le passività in voci attive. All’Inps l’operazione è consentita addirittura dalla legge. La bacchetta magica si chiama “separazione tra previdenza ed assistenza”. Grazie a questa regola le entrate del più importante istituto previdenziale (che oggi ha incorporato anche l’Inpdap e l’Enpals, oltre ad altre casse minori) sono costituite da quasi 214 miliardi di euro, provenienti dalla contribuzione dei datori e dei lavoratori, e da 93 miliardi di trasferimenti dal bilancio dello Stato (a copertura, appunto, della cosiddetta assistenza). Pertanto, non risponde a verità quanto affermano periodicamente gli esponenti del partito “separatista”: che è necessario, cioè, “fare chiarezza” tra le prestazioni di carattere previdenziale (il cui finanziamento è a carico della contribuzione) e quelle di natura assistenziale (sostenute dalla fiscalità generale).



Non siamo all’anno zero. L’apporto dello Stato riguarda l’intera gamma delle prestazioni affidate all’Inps: dagli ammortizzatori sociali, alle misure a favore della famiglia fino ad un’abbondante integrazione delle risorse destinate alle pensioni (per ben 45,5 miliardi di euro nel 2013). Solo in Italia vi è tanta ostinazione nel rivendicare un’actio finium regundorum (che sposti più in là l’area dell’assistenza) tra due settori i cui trattamenti sono intimamente connessi ed intrecciati.



Quando ha avuto origine questo pasticcio nostrano del quale si continua a dibattere? Alla fine degli anni Ottanta apparve chiaro che l’Inps non era più in grado di coprire le spese per prestazioni (nel frattempo erano pure aumentate le attribuzioni) mediante il normale flusso delle entrate. Mentre fino a 15 anni prima era sufficiente un’aliquota di circa il 19% per far fronte all’intera gamma di prestazioni. Fu inventato, allora, con la legge n.88/1989, il marchingegno della separazione allo scopo di giustificare il crescente massiccio intervento dello Stato (e delle risorse fiscali) nel finanziamento delle prestazioni istituzionali. Diventarono “assistenza” non già le tutele degli indigenti (come previsto dall’art. 38 Cost.) ma quelle tipologie che, in base a considerazioni politiche, fu possibile accollare a Pantalone.



Il “nuovo modo” di compilare il bilancio (col criterio della distinzione) comportò un capovolgimento del precedente assetto (in cui le poste erano ripartite come prestazioni pensionistiche, in passivo e non pensionistiche, in attivo), nel senso che tutti i settori critici vennero inseriti nella neonata Gestione degli interventi assistenziali (Gias), la quale, a partire poi dal 1998, fu posta a totale carico dello Stato (quindi il suo saldo.

Nel 1999 ebbe termine la controversia sulle spettanze e venne cancellato il debito dell’Inps (nei confronti del Tesoro), contratto, nel tempo, a fronte di anticipazioni di tesoreria per un ammontare di oltre 160mila miliardi di vecchie lire. Col trascorrere degli anni sono aumentati i compiti assistenziali affidati all’Inps (da ultima l’erogazione dei trattamenti agli invalidi civili) ed è cresciuto l’apporto statale, ivi compresa la quota di finanziamento della spesa pensionistica. In sostanza, si è passati dal principio che pone a carico allo Stato l’onere delle prestazioni assistenziali, a quello, del tutto opposto, che qualifica una determinata prestazione sociale come assistenziale per il solo fatto che sia finanziata dalla fiscalità generale.

Grazie all’insieme delle suddette operazioni, nel 1999, mutò radicalmente la situazione finanziaria dell’Istituto che da una situazione patrimoniale in rosso per 105 miliardi di lire ne presentò una positiva per quasi 30 miliardi di lire. Va da sé che un tratto di penna non è in grado di rendere evanescenti delle risorse reali: tanto più che, in loro corrispondenza, furono emesse e sottoscritte quote di debito pubblico che adesso vagano nel nostro futuro.

Certo, tali operazioni di ingegneria finanziaria erano indispensabili ed hanno determinato, utilmente, una certa razionalizzazione. E’ inaccettabile, però, l’atteggiamento di certi sindacati, perennemente rivendicativo, nei confronti dello Stato e della collettività, con la richiesta di ulteriori apporti (come se fossero dovuti e non rispondessero, invece, a scelte di mera opportunità). E’ altrettanto infondato negare l’esistenza di una crisi del sistema pensionistico indicando, come soluzione, il solito ampliamento dei trasferimenti statali. Il Paese può anche decidere di aumentare il contributo del fisco a sostegno delle pensioni: sarebbe scorretto, però, non computare, nell’ambito della relativa spesa, tali risorse. In tutta Europa, le uscite per le pensioni vengono calcolate nella loro effettiva consistenza, a prescindere dalla natura (contributiva o fiscale) dei flussi di entrata.