Il sistema delle relazioni industriali è piuttosto malconcio e certamente ha conosciuto momenti migliori dell’attuale. Sviluppatosi al di fuori del disegno che i Padri costituenti avevano delineato nell’articolo 39 della Carta, il modello – avvalendosi dei principi del diritto comune (libertà di associazione, autonomia contrattuale sulla base del reciproco riconoscimento tra le parti sociali, comportamenti concludenti, regole di fair play, principio del trattamento minimo, articolazione dei livelli di contrattazione e quant’altro) – è stato in grado, soprattutto alla luce di quanto disposto dal protocollo del 1993, di valicare il confine del secolo e di inoltrarsi, ancora funzionante, in quello nuovo.



Un altro aspetto importante da considerare è la regolamentazione del diritto di sciopero nei settori dei pubblici servizi essenziali che – a eccezione di qualche strappo ogni tanto – ha arginato la conflittualità: la stessa che, nei settori privati – se si considera quell’ordinaria di natura contrattuale – si è parecchio ridimensionata, grazie alle procedure faticosamente introdotte. Esiste, purtroppo, un comparto in cui questo discorso non vale. Si tratta di una categoria molto importante non solo per le sue gloriose tradizioni, ma anche per il suo know how merceologico e tecnologico nel contesto di un sistema produttivo fortemente caratterizzato dalla industria manifatturiera. Parliamo dei metalmeccanici.



Per ragioni apparentemente incomprensibili (ma arcinote) tutto quello che – bene o male – funziona nel restante mondo del lavoro, nei metalmeccanici fallisce. Tutto ciò che altrove viene salutato come un successo, per la Fiom è una resa. Il fatto è che, sia per il rilevo oggettivo della categoria, sia per l’appeal mediatico che le si attribuisce in un sistema comunicativo in cui fa notizia l’uomo che morde il cane, tutto l’ambaradan sindacale subisce una sorta di gravidanza isterica e, “dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno” tutti si mettono alla ricerca di una soluzione che possa valere anche per i metalmeccanici.



Una soluzione, tuttavia, che per il gruppo dirigente della Fiom evidentemente non esiste, dal momento che, nella riunione del Comitato direttivo della Cgil che ha ratificato a larga maggioranza il Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio scorso, Maurizio Landini e i suoi non si sono limitati a votare contro, ma hanno dichiarato che la loro federazione quell’accordo – che regola meticolosamente i criteri della rappresentanza, le regole per i negoziati contrattuali e per l’approvazione degli accordi – non lo applicherà. Ci troviamo di fronte a quella che i giuristi chiamano tautologia: si fanno gli accordi per “portare dentro la Fiom”; si sudano le classiche sette camice per riuscirvi; poi la Fiom si sottrae ugualmente; si riapre il problema e si ripropone l’esigenza di un nuovo accordo inclusivo della Fiom.

In sostanza, come nel Gioco dell’oca si torna sempre alla casella di partenza. E così via per anni. Ma perché succede tutto questo? I dirigenti della Fiom hanno sicuramente tre narici, ma non sono degli sprovveduti. Nella loro follia si intravvede una logica. La mossa – al limite della scissione – di aperta contestazione del Testo Unico sulla rappresentanza (con argomenti invero pretestuosi) è rivolta a rilanciare – in una fase che il leader della Fiom giudica favorevole in conseguenza del suo abboccamento con Giamburrasca Renzi – l’ipotesi di una regolazione legislativa, non condivisa da altri settori sindacali.

Landini ha sicuramente ritenuto che l’accelerazione impressa al confronto sul Testo Unico da parte della Confindustria e delle confederazioni sindacali avesse avuto lo scopo di bloccare o quanto meno di condizionare nei contenuti una eventuale legge sulla rappresentanza (per inciso ricordiamo che la Fiom ha presentato un testo di legge d’iniziativa popolare in materia). Così, si è avvalso del diritto di veto che gli è sempre stato consentito di esercitare, rimettendo in freezer un accordo praticamente fatto per normalizzare i metalmeccanici.

Paga questa linea? Si direbbe di no. Proprio in questi giorni sono usciti i dati sulle iscrizioni alla Fiat. La Fiom è diventata il quinto sindacato. Ma Landini considera questo risultato come conferma della bontà della politica della sua organizzazione. Nel 1955 la Fiom perse il primo posto nelle elezioni per la commissione interna alla Fiat. Il trauma fu notevole. Giuseppe Di Vittorio avrebbe potuto dare la colpa all’azienda, che in fatto di repressione non scherzava. Invece, ebbe il coraggio di affermare che la Cgil (leggi la Fiom di allora) aveva sbagliato politica. E quel gruppo dirigente fu rimosso.

Anche adesso sarebbe semplice risolvere il problema della rappresentanza e della rappresentatività e fornire un grande contributo alla ripresa economica e degli investimenti esteri: basterebbe cambiare il gruppo dirigente della Fiom. Il sistema Pci-Cgil di un tempo sarebbe stato in grado di farlo in una notte. O gran bontà dei cavalieri antichi!

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