Dopo la legge di stabilità, dove sono stati allargati i cordoni della borsa, il tormentone degli “esodati” ha trovato ospitalità anche nel messaggio di fine d’anno del Capo dello Stato. L’argomento è un po’ passato di moda rispetto a quando ci si imbatteva, appena si accendevano i teleschermi, in robuste rappresentanze delle diverse categorie di salvaguardati che agitavano i loro problemi come se fossero una grande emergenza nazionale. Ma il kombinat politico-mediatico ha investito tanto sul tema che diventa difficile fare marcia indietro e ammettere che vi sono state parecchie esagerazioni.
Un recente articolo di un commentatore di vaglia come Enrico Marro su Il Corriere della Sera – forse stimolato dalle parole di Giorgio Napolitano – ha fornito alcuni dati di un recente monitoraggio che meritano una particolare attenzione per evitare che si sollevi nuovamente un polverone come avvenuto nel corso del 2012. In realtà, sugli esodati si è compiuta, partendo da dati e da preoccupazioni reali, una grande operazione di marketing da parte dei soggetti interessati. Già in altre occasioni, a tal proposito, abbiamo scritto che la vicenda è stata – anche per le modalità adottate – un caso di “grillismo sociale”. Basta riflettere sulle caratteristiche che ha avuto questo movimento.
Innanzitutto, la componente egemone, tra le diverse a cui la legge riconosceva il mantenimento dei requisiti pensionistici vigenti prima della riforma Fornero, è stata quella degli esodati in senso stretto (che poi ha fornito il nome anche alle altre fattispecie), ovvero di coloro che avevano sottoscritto accordi di risoluzione consensuale e incentivata del rapporto di lavoro, di importo ragguagliato agli anni che li separavano all’accesso alla pensione. In generale, si trattava di personale di qualifica dirigenziale o impiegatizia dipendente da grandi imprese pubbliche (come Enel o Poste spa) o private (come Ibm). Personale spesso non sindacalizzato, che ha avuto l’intuizione di organizzarsi attraverso la rete del web, in autonomia e con una grande intensità di diffusione.
È nostra opinione che anche le confederazioni sindacali siano state prese alla sprovvista da questo movimento e che siano state costrette a seguirne le rivendicazioni. I media hanno fatto il resto assumendone acriticamente le posizioni, quando sarebbe bastato aprire un minimo di contradditorio per informare correttamente l’opinione pubblica. Per esempio, non è mai capitato che un conduttore abbia chiesto in diretta a un esodato a quanto ammontasse la sua extraliquidazione oppure se si fosse effettivamente impegnato nel cercare un’altra attività, dando invece per scontato che, a una certa età, diventa impossibile occuparsi nuovamente, una volta che si sia accettato di lasciare il lavoro.
Alcune precisazioni sarebbero state opportune se non addirittura necessarie. Andava detto, innanzitutto, che lo Stato non aveva mai stipulato un patto con gli esodati (come invece sostenevano loro) e quindi non lo aveva neppure violato. L’accordo di esodo lo avevano negoziato loro stessi (o un sindacato per loro conto) con il datore di lavoro prendendo a riferimento – per calcolare l’entità dell’incentivo alla risoluzione consensuale del rapporto – il tempo rimanente all’accesso alla pensione (quasi sempre di anzianità). E lo avevano fatto in un periodo in cui le regole del pensionamento cambiavano praticamente ogni anno. Era inaccettabile che da parte degli interessati ci fosse il rifiuto di qualsiasi assunzione di rischio e di responsabilità per aver compiuto delle scelte in modo condiviso.
Certo, il lavoratore è sempre la parte più debole e le situazioni personali non sono mai riconducibili a un’unica fattispecie. C’è differenza, tuttavia, tra l’ambito di autonomia di cui può avvalersi il dipendente di una piccola impresa o uno dell’Enel, delle Poste o di qualche altra azienda pubblica o privata. Poi è scoppiata la guerra delle cifre. Gli esodati sono diventati all’improvviso 390mila: un’entità in cui era evidente la confusione tra quanti venivano interessati dai nuovi requisiti introdotti dalla riforma (magari continuando a lavorare) e quanti si sarebbero effettivamente trovati a essere privi di reddito e di pensione una volta a regime le nuove regole.
Al dunque, dal 2012 a oggi vi sono stati ben cinque interventi di salvaguardia che hanno riguardato – nella previsione – 130mila soggetti nei primi tre, 9mila nel quarto e 17mila nel quinto per un totale di 156mila e un onere complessivo, dal 2012 al 2020, di 11,5 miliardi. I dati del monitoraggio richiamati nell’articolo di Enrico Marro ci confermano, tuttavia, nella convinzione che le stesse previsioni siano state abbondanti e che i soggetti sottoposti a tutela alla fine sarebbero stati in numero inferiore. Per fortuna, nella legge di stabilità per il 2013 venne istituito un fondo di solidarietà in cui potranno confluire i risparmi delle disponibilità stanziate evitando che finiscano in economia. Ma se non si fa chiarezza sugli andamenti effettivi si rischia di ripetere l’andazzo di questi ultimi due anni: quello di destinare al capitolo esodati ulteriori risorse senza che ce ne sia la necessità, perché gli stanziamenti previsti sono più che sufficienti.
Nei primi tre interventi di salvaguardia erano previsti, come ricordato, 130mila casi; sono state accolte 80mila domande; le pensioni liquidate secondo i previgenti criteri sono state solo 27mila. Ciò vuol dire che l’Inps non paga? Che la gestione del superpresidente Antonio Mastrapasqua è inadeguata? Niente di tutto questo. Oggi in Italia nessuno degli aventi diritto sulla base dei requisiti ammessi – è una precisazione indispensabile per comprendere il perimetro della salvaguardia – si trova a essere privo di stipendio, ammortizzatori sociali o pensione. La tutela prevista per 156mila soggetti (abbiamo già detto che il numero è sovrastimato) si snoda lungo l’arco dei prossimi anni man mano che verranno a mancare le prestazioni (cig, indennità di mobilità, incentivo all’esodo) ora erogate e interverrà il riconoscimento del trattamento pensionistico.
Se per ora gli assegni sono 27mila ciò significa che, a parte qualche ritardo, sono soltanto questi che, allo stato degli atti, hanno avuto bisogno della copertura pensionistica perché si erano esaurite le altre forme di protezione. Tutto ciò premesso, la proposta riformulata in queste ultime ore dal ministro Enrico Giovannini, riguardante l’anticipo di alcuni anni della pensione a titolo di prestito restituibile, potrebbe rappresentare una soluzione anche per il problema degli esodati, sempre che si eviti di farne una misura di carattere generale a disposizione non solo di chi ha perso il lavoro, ma anche di che vuole abbandonarlo prima di quanto previsto.