E così il Consiglio dei ministri è autorizzato a porre la questione di fiducia sul Jobs act Poletti 2.0. La decisione è stata assunta mentre è ancora in corso la discussione generale con una trentina di iscritti a parlare. Si apre, così, in queste ore una corsa a votare, almeno al Senato, il provvedimento per consentire a Matteo Renzi di infilarlo nella borsa e portarlo a Milano al vertice Ue sul lavoro, dove altrimenti rischierebbe di arrivare a mani vuote. Allo stato degli atti non si capisce bene su quale testo voterà Palazzo Madama: se quello approvato in Commissione o uno diverso che assuma i punti scaturiti dalla riunione della direzione del Pd, lunedì 29 settembre.



La differenza non è di poco conto, non solo per quanto riguarda i contenuti, ma anche e soprattutto per gli effetti che potrebbero derivare nei rapporti con gli alleati di maggioranza, da un lato, o nei confronti della sinistra del partito, dall’altro. Per quanto volitivo e spregiudicato sia il Premier, ormai, la sua scelta è destinata a scontentare qualcuno e a turbare il quadro politico. Poi si aprirà il “tormentone” della Camera, dove la sinistra ha più spazi di manovra, a partire dalla commissione Lavoro.



Comunque si concluda questo “primo tempo”, la vicenda dell’articolo 18 è paradossale. Per mesi si sono confrontate due linee contenute una nel testo originale del AS 1428 e una in un emendamento “centrista” a prima firma Ichino. Poi il Governo ha concordato con il relatore un emendamento sibillino, aperto a ogni possibile interpretazione, al punto da essere di dubbia costituzionalità perché non è consentito scrivere deleghe impastate con l’aria fritta.

Con la prontezza di abili politici, il presidente-relatore Maurizio Sacconi e il senatore Pietro Ichino hanno subito sostenuto che quella dozzina di parole, contenute nell’emendamento (contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio) avrebbero mandato in pensione la reintegra, salvo che per i casi di licenziamento nullo o discriminatorio. Il bello è che i primi ad avallare quest’interpretazione, invero generosa, sono stati proprio gli esponenti della sinistra Pd. Poi, tornato dagli States, il Premier ha rilasciato un’intervista poche ore prima della direzione in cui addirittura prometteva di “ammazzare” la reintegra. Il 29 settembre, Renzi, con la faccia di tolla delle migliori occasioni, si è rimangiato, a partire dalla relazione, buona parte di quanto aveva sostenuto sino a quel momento. Infine, è arrivato il voto sull’odg della direzione, il cui contenuto è stato ritenuto un passo indietro dal Ncd e uno in avanti, ancora insufficiente, per la sinistra Pd.



Noi restiamo convinti – qui sta il paradosso nel paradosso – che se si fosse partiti con quella soluzione fin dall’inizio (la sanzione per il licenziamento economico può essere solo di carattere risarcitorio, mentre l’opzione-reintegra è affidata al giudice nei casi più gravi di licenziamento disciplinare illegittimo) oggi tutti direbbero, nella maggioranza, che non è in vista nessuna svolta epocale, ma si sta compiendo un’utile implementazione della legge Fornero, ancorché modesta e lontana non solo dalle aspettative, ma pure da quanto era stato solennemente annunciato e promesso. Insomma, si sono incartati da soli.

Adesso, visto che al Senato la maggioranza deve “tirare la cinghia” perché i margini di voti sono molto ristretti, il Premier non esiterà a porre la questione di fiducia per potersi coprire a sinistra e presentarsi a Milano, al vertice sul lavoro, portando con sé un nuovo mazzo di tarocchi con cui esercitarsi nel gioco delle tre carte, in cui eccelle. Ma si può votare la fiducia su norme di delega, per di più di dubbia costituzionalità, perché non rispondenti ai requisiti disposti dall’art.76 Cost., aperte a ogni possibile soluzione? Il Colle non ha nulla da eccepire?

Oddio, non è infondata l’idea che – ove il giudice si convinca che il fatto che ha determinato il licenziamento disciplinare non sussista – sanzionare il comportamento del datore soltanto con un’indennità risarcitoria sia in fondo un rimedio non adeguato. Se un datore licenzia un suo dipendente accusandolo di una mancanza grave (o se nel contratto di lavoro essa è punita soltanto con una sanzione cosiddetta conservativa) e poi i fatti contestati risultano insussistenti non è del tutto insensato ritenere che il giudice possa disporre la reintegra.

Chi fa questi ragionamenti, tuttavia, dimentica un aspetto di notevole rilievo del sistema sanzionatorio. L’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro è condizionato dalla legge e dai contratti all’attivazione di una procedura preliminare all’adozione stessa del provvedimento. Il datore, cioè, è tenuto a contestare i fatti al lavoratore per iscritto; quest’ultimo, con l’assistenza sindacale o legale, può fornire la sua versione, anche con elementi probatori. Solo a conclusione del contraddittorio, nei tempi previsti, al datore è consentito di adottare il provvedimento sanzionatorio. Non è già questa un’importante garanzia che viene conferita al lavoratore nel caso di licenziamento cosiddetto disciplinare?

La legge consente, infatti, al prestatore d’opera di far valere le sue ragioni, in sede diversa dal giudizio, addirittura in modo preliminare all’adozione della sanzione ovvero del licenziamento per giustificato motivo soggettivo. C’è da ritenere, così, che nella generalità dei casi la questione del recesso per motivi disciplinari arrivi davanti al giudice soltanto quando i meccanismi predisposti per evitare questo esito falliscano miseramente. Il che dovrebbe essere tenuto in considerazione negli orientamenti che si andranno ad assumere al momento dei decreti delegati.

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