Più di settant’anni or sono (esattamente il 3 giugno 1944, tre giorni prima del D-Day, lo sbarco in Normandia) i rappresentanti del Pci, del Psi e della Dc sottoscrissero il Patto di Roma da cui nasceva la Confederazione generale italiana del lavoro (la Cgil). Benché i firmatari si premurassero di sottolineare che la Confederazione “è indipendente da tutti i partiti politici”, il DNA ideologico divenne un tratto ineludibile nell’esistenza del sindacalismo italiano. Del resto, già nel documento costitutivo stava scritto che il sindacato unitario dava testimonianza della volontà del “partito comunista, alleato del partito socialista, di stringere con il partito della democrazia cristiana un patto di azione comune il quale prevede la lotta delle grandi masse comuniste e socialiste e delle grandi masse cattoliche (si noti la separatezza, ndr) per un programma comune di rigenerazione economica, politica e sociale”.



Il codice genetico, di impronta partitica, ha avuto conferma nel tempo. A seguito delle vicende che caratterizzarono il quadro politico del dopoguerra e che determinarono una profonda lacerazione nell’ambito delle forze antifasciste e democratiche, il sindacalismo italiano si articolò, tra il 1948 e il 1950, sulla base di tre grandi confederazioni – la Cgil, la Cisl e la Uil – le quali facevano riferimento alle forze politiche che, a suo tempo, avevano promosso il sindacato unitario.



Le tre confederazioni non erano le sole in campo (è sempre stato presente un associazionismo sindacale autonomo-corporativo che col tempo ha cambiato più volte pelle a cui si aggiungeva una confederazione, la Cisnal, vicina al Msi – discriminata dalle altre – che in seguito ha dato vita all’attuale Ugl, divenuta una sorta di sorellastra più o meno accettata dalle altre); ma – ora divise e in polemica tra di loro, ora unite in patti unitari – erano ritenute le organizzazioni maggiormente rappresentative.

La storia del movimento sindacale italiano, ai fini del presente articolo, si ferma a questo punto; salvo ricordare che la vicenda recente del sindacalismo nostrano può essere raccontata, all’incontrario, di quella di un’Atlantide. Nella leggenda fu quel grande pezzo di terraferma a immergersi nelle acque profonde, mentre tutto il resto del pianeta rimaneva a galla; da noi, nel passaggio tra la prima e la seconda Repubblica, sono scomparsi o si sono trasformati i partiti costituenti il Patto di Roma, mentre sono sopravvissuti i sindacati al pari di tante altre organizzazioni (economiche, culturali, sociali, sportive e quant’altro) che avevano la medesima matrice delle grandi forze politiche protagoniste della democrazie italiana fino ai primi anni ‘90, quando presero il potere gli ayatollah in toga.



In seguito, è capitato, sovente, che i sindacati siano stati indotti a esercitare un ruolo di supplenza di forze politiche indebolite. Comunque, sono sempre stati in grado di condizionarne – attraverso la concertazione o mediante la pressione politica – la linea di condotta e l’azione di governo. In particolare, nel contesto di uno sgangherato modello di bipolarismo, che ha caratterizzato la vita pubblica italiana fino alla XVII legislatura (l’attuale), la Cgil ha svolto il compito del “nemico implacabile” degli esecutivi di centrodestra e di “padre padrone” o di “azionista di riferimento” di quelli di centrosinistra, guadagnandosi, grazie all’impegno espletato nella prima funzione, il diritto di svolgere anche la seconda.

Ciò fino all’avvento, ai vertici del Pd, di Matteo Renzi, quando, alla stregua del virus Ebola, è scoppiata, improvvisa ma non inattesa, la “guerra a sinistra”: un conflitto che ha già conosciuto il suo primo atto di ostilità in occasione dello sciopero generale del 12 dicembre. Le questioni del Jobs Act Poletti 2.0 e del disegno di legge di stabilità sono soltanto dei casus belli, quasi dei pretesti, di una sfida a sinistra che, da latente, è divenuta aperta.

Come finirà lo scontro tra le due sinistre? In questa vicenda si nota, prima di qualsiasi altro aspetto, che non tornano i numeri. Il Pd di Renzi può vantare – e non esita a farlo – un risultato di quasi il 41% alle elezioni europee. Dal canto suo, la Cgil, con alcuni milioni di iscritti, è in grado di mobilitare (insieme agli ascari della Uil) ancora centinaia di migliaia di lavoratori e pensionati. Eppure il sindacato di Susanna Camusso può contare, nei fatti, su di una minoranza – confusa, divisa e impotente – che è intorno, complessivamente, a meno di un terzo del Pd. Ma dove finiscono (o finiranno), allora, i suffragi “orientati” dalla confederazione rossa?

Una parte a Sel, d’accordo. Ma è una forza politica troppo piccola. Del resto, anche i grandi soggetti collettivi sono prigionieri del proprio destino. La Cgil può fare tutti gli scioperi generali che vuole, può qualificarsi sempre più come un sindacato autonomo, ma non è in grado di cambiare il suo DNA: nata da una costola della politica deve trovare dei riferimenti di natura politica. Certo, si possono fare dei giri di valzer con la Lega in occasione del referendum abrogativo della legge Fornero sulle pensioni, almeno fino a quando la Consulta – ce lo auguriamo – non dichiarerà inammissibile il quesito ai sensi dell’articolo 75 Cost. Sia Grillo che Salvini possono rubacchiare dei suffragi, anche tanti. Non sono in grado, però, di diventare dei punti di riferimento per dei militanti abituati a compiere una scelta univoca in politica e nell’adesione a un sindacato.

Camusso ha capito che la prima fase della sfida a sinistra è stata vinta da Matteo Renzi, che il suo sciopero generale e quelli di Landini non sono serviti a nulla, anzi hanno rafforzato il premier-ragazzino. Renzi può essere sconfitto (o ridimensionato) soltanto sul piano politico, se si darà vita a una consistente forza elettorale alla sua sinistra, in grado, non di essere un’alternativa (perché da sinistra in Europa non si governa: lo vedremo presto in Grecia), ma un interlocutore competitivo e condizionante.

La Cgil è disposta a fare sua questa partita? E con quali altre forze? Forse non è un caso, allora, che, nei settori della minoranza del Pd, si affacci, proprio a ridosso dello sciopero generale del 12 dicembre, l’ipotesi della scissione e che torni a circolare l’idea del partito del lavoro a suo tempo immaginato da Claudio Sabattini, il “vate” e il capostipite, ora defunto, del gruppo dirigente della Fiom.

Dobbiamo aspettarci, settant’anni dopo, un Patto di Roma all’incontrario? Saranno la Cgil e la Uil a fondare il partito che – per dirla con Carmelo Barbagallo – darà inizio a una nuova Resistenza? Si sa: i drammi della storia si ripetono sempre sotto forma di farsa.

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