Nella Legge di stabilità per il 2015 saranno previste delle novità in materia di pensioni: alcune positive (almeno secondo la logica del “male minore”), altre, ad avviso di chi scrive, parecchio discutibili. Quelle da inserire nella parte, piena a metà del bicchiere, purtroppo, sono state affidate alla lettura del Senato, che dovrà trovare le coperture aggiustando le poste senza stravolgere i saldi. Pare comunque che su queste misure – si tratta in generale di correzioni del testo iniziale – vi sia un accordo politico tra il Governo e, quanto meno, la sua maggioranza.
Cominciamo dal prelievo sui rendimenti delle forme di previdenza complementare, inizialmente elevato dall’11,5% al 20%. L’incremento dovrebbe fermarsi al 17%. È sempre troppo trattandosi di finanza previdenziale: l’esecutivo continua a non tener conto che in questo modo si produrrà un taglio netto sulle future pensioni integrative, dal momento che un inasprimento significativo della tassazione dei rendimenti inciderà negativamente sui montanti presi a riferimento, con calcolo attuariale, per determinare l’importo dell’assegno. Per analogia, sempre al Senato dovrebbe essere ridotta, di un paio di punti, l’aliquota di rivalutazione del Tfr anticipato in busta paga, anche se il Governo rimane contrario a introdurre una forma di tassazione separata. Si parla altresì, se ve ne saranno le condizioni, di uno “sconto” anche con riguardo alle imposte sui rendimenti della Casse assistenziali e previdenziali dei liberi professionisti.
Intanto, alla Camera, sono state introdotte – ecco le novità discutibili – alcune modifiche alla riforma delle pensioni del 2011. Per giustificare una di queste “correzioni” si sono tirate in ballo le cosiddette pensioni d’oro. Attaccare le pensioni d’oro fa sempre buon gioco. Anzi esiste, nei grandi quotidiani, la congrega degli “indignati speciali”, che, attraverso questo argomento evergreen, si è garantita delle vere e proprie fortune in diritti d’autore. L’ultima crociata ha riguardato, addirittura, non una norma operativa, ma una disposizione mancante nella riforma Fornero del 2011.
È noto, infatti, che, con un buon substrato di ideologia, il ministro del Lavoro del governo Monti, Elsa Fornero, volle introdurre, a partire dall’inizio del 2012, il calcolo contributivo pro rata per tutti. Coerentemente, Elsa Fornero pensò che – se contributivo doveva essere – lo fosse fino in fondo e per tutti gli aspetti. Nel testo dell’articolo 24 del decreto legge Salva-Italia vennero soppresse un paio di righe che, presenti nelle solite bozze preliminari, avrebbero introdotto una clausola-limite (di garanzia), nel senso che, applicando i nuovi criteri di calcolo, al soggetto interessato fosse precluso di conseguire un trattamento più favorevole rispetto a quelli previgenti (liquidati secondo il modello retributivo).
Perché – è bene che si sappia – in certe condizioni il sistema contributivo è assai più vantaggioso di quello retributivo. Nel determinare, ad esempio, l’anzianità di servizio utile per la pensione, nel primo caso, contano tutti gli anni di lavoro e di versamenti; nel secondo, è fissato un tetto a 40 anni anche per chi dovesse lavorare più a lungo.
Ovviamente alcuni lavoratori (l’Inps stima che sarebbero 160mila in un decennio) hanno approfittato di una norma di legge per loro più favorevole. Hanno fatto qualche cosa di male? Sembrerebbe di sì visto che – alla Camera con l’accordo del Governo – sono stati approvati emendamenti al disegno di legge di stabilità grazie ai quali non solo viene inserita la clausola- limite espunta dal testo nel 2011 (scelta opinabile, ma che rispettiamo); ma, dal 2015, verrà tagliato dalla pensione l’eventuale bonus derivante dall’applicazione del calcolo contributivo a chi è già andato in quiescenza.
I beneficiari (alti burocrati, docenti, magistrati, in particolare) sono accusati di essere rimasti in servizio proprio per assicurarsi una pensione più elevata (ecco la “gogna” delle pensioni d’oro). Il che, in Italia, sembra offendere il comune senso del pudore. In sostanza, da noi, dovrebbero essere puniti non solo i “furbetti”, ma anche gli “stakanovisti”: sia quelli (e sono tanti) che una “pensione d’oro” l’hanno ottenuta facendo lobby; sia coloro che si sono guadagnato un trattamento migliore, alla luce del sole e in modo conforme alle leggi, lavorando più a lungo, grazie a doti di talento, responsabilità e professionalità.
Intanto l’on. Maria Luisa Gnecchi, la Giovanna d’Arco delle pensioni degli italiani, ha colpito ancora. Un emendamento a sua prima firma manomette, fino a tutto il 2017, il sistema delle penalizzazioni nel caso di pensionamento anticipato prima dei 62 anni. È bene soffermarsi a spiegare l’operazione che sta per essere compiuta, una volta approvata la Legge di stabilità. Al momento della riforma del 2011, a fronte del superamento delle pensioni di anzianità e dell’introduzione di un modesto disincentivo ad avvalersene prima di aver compiuto 62 anni, il Pd ottenne che vi fosse un elemento di salvaguardia per coloro che erano in grado di far valere il requisito contributivo effettivo (intorno ai 41-42 anni a seconda che si trattasse di donne o di uomini con l’aggiunta delle mensilità derivanti dall’aggancio automatico all’attesa di vita) includendovi alcune limitate voci di contribuzione figurativa. L’emendamento Gnecchi fa saltare il vincolo della contribuzione effettiva, spalancando la porta ai casi di copertura figurativa, non ammessi nella normativa previgente. Il che significa che, fino al 31 dicembre 2017, le pensioni di anzianità ritorneranno al loro antico splendore.
Corre, poi, la voce – lo ha anticipato un grande quotidiano – che l’Inps abbia in cantiere una circolare di chiarimento per quanto riguarda i requisiti per utilizzare la cosiddetta “opzione donna”. Di che cosa si tratta? Nella riforma Maroni del 2004 venne concesso alle lavoratrici – fino al 31 dicembre 2015 – di optare per l’andata in quiescenza a 57 anni di età (58 per le lavoratrici autonome) e 35 di contributi a condizione di aver liquidato il relativo trattamento sulla base del solo calcolo contributivo. La norma – comportando, per via del meccanismo di calcolo, una penalizzazione economica del 20-25% – è rimasta “in sonno” per anni, fino a quando non è divenuta un’opzione appetibile dopo l’accelerazione impressa dalla legge Fornero all’età pensionabile di vecchiaia e anticipata.
A utilizzarla finora sono state circa 18mila lavoratrici e pare che ci siano oltre 8mila domande (qualcuno parla addirittura di 13mila) in attesa di poter avvalersene se finisse per passare un’interpretazione diversa e più favorevole di quella finora sostenuta dall’Inps su input dei ministeri vigilanti. In sostanza, il problema è il seguente: per avvalersi di questa possibilità è sufficiente aver maturato, entro la fine del 2014, i 57 anni e i 35 di versamenti oppure è necessario aver completato anche il periodo (un anno per le dipendenti, 18 mesi per le lavoratrici autonome) della cosiddetta “finestra”?
L’Istituto è da tempo orientato a dare l’interpretazione più favorevole, ma l’onnipotente Ragioneria generale dello Stato chiede – giustamente – la copertura. Qualche quotidiano ha addirittura ipotizzato che, nel giro del Senato, il disegno di legge potrebbe anche dare corso alla riforma della governance dell’Inps con l’istituzione di un organismo collegiale al vertice. Non si dimentichi, infine, che lo sciagurato referendum della Lega per l’abrogazione della riforma Fornero delle pensioni ha ottenuto non solo il via libera sul numero delle firme da parte della Corte di Cassazione, ma anche il sostegno della Cgil (la quale riesce sempre a farsi riconoscere). Attendiamo il giudizio della Consulta sull’ammissibilità che, ai sensi dell’art. 75 Cost., dovrebbe essere negativo, anche perché la riforma era contenuta – come già ricordato – in una manovra di carattere finanziario più ampio, i cui effetti erano essenziali per la realizzazione di quella operazione nel suo complesso. E se il giudizio di ammissibilità non fosse negativo?