Con il voto della Camera sul medesimo testo approvato tumultuosamente al Senato arriva in porto la Legge di stabilità per il 2015. Montecitorio, in occasione della prima lettura, aveva affidato a Palazzo Madama alcune modifiche – anche in materia previdenziale – che alla fine sono state possibili in modo estremamente limitato e indiretto. Ci riferiamo, da un lato, alla questione del Tfr in busta paga e della tassazione dei rendimenti delle forme di previdenza complementare; dall’altro, all’aliquota da applicare ai rendimenti delle risorse investite dalle Casse dei liberi professionisti. Il livello della tassazione è rimasto invariato: il 20% (era l’11,5%) per la previdenza privata, il 26% per le Casse. Per il Tfr resta stabilito il 17% come già in prima lettura alla Camera.



Il Senato è riuscito soltanto ad alleggerire, parzialmente, l’onere del prelievo attraverso il riconoscimento di un credito di imposta nel caso di impiego “virtuoso” delle risorse. Infatti, a decorrere dal 2015 vengono introdotti due crediti d’imposta a favore degli enti di previdenza obbligatoria (Casse di previdenza private) e dei fondi pensione. Il credito d’imposta a favore degli enti di previdenza obbligatoria è pari alla differenza tra l’ammontare delle ritenute e imposte sostitutive applicate nella misura del 26% (aliquota così elevata, a decorrere dal 2015, dall’articolo 3 del D.L. n. 66 del 2014) e l’ammontare di tali ritenute e imposte sostitutive computate nella misura del 20%, a condizione che i proventi assoggettati alle ritenute e imposte sostitutive siano investiti in attività di carattere finanziario a medio o lungo termine individuate con decreto del Mef. Il credito d’imposta a favore dei fondi pensione è pari al 9% del risultato netto maturato assoggettato a imposta sostitutiva (elevata al 20% dalla Legge di stabilità) a condizione che un ammontare corrispondente al risultato netto maturato assoggettato alla detta imposta sostitutiva sia investito in attività di carattere finanziario a medio o lungo termine individuate con decreto del Mef.



Con il decreto del Mef saranno anche stabilite le condizioni, i termini e le modalità di fruizione del credito d’imposta al fine del rispetto del limite di spesa (80 milioni) e al relativo monitoraggio. Come si vede, oltre a una compensazione parziale dell’incremento della imposizione fiscale sui rendimenti, opera, per il credito d’imposta, anche un limite quantitativo di spesa, esaurito il quale non sarà più possibile usufruirne. Peraltro restiamo dell’avviso che i fondi pensione e le Casse debbano preoccuparsi, prioritariamente, di tutelare i loro iscritti e non di salvare la Patria con investimenti non sufficientemente garantiti.



Poi, abbiamo avuto occasione di ribadirlo altre volte, ma vale la pena di ripeterlo nuovamente: tra le due misure – ambedue criticabili – vi è una differenza sostanziale. Mentre la tassazione a carico degli enti di previdenza obbligatoria (le Casse privatizzate) colpisce l’ammontare complessivo delle risorse poste a garanzia, nel tempo, della liquidazione delle pensioni, il maggior prelievo sui rendimenti dei fondi pensione e forme similari interviene direttamente sul montante contributivo (determinato attraverso i versamenti e i loro rendimenti) su cui, a suo tempo e su base attuariale, sarà calcolato l’assegno. In sostanza, in materia di previdenza, il governo dimostra di non avere una strategia.

La scelta che ha ispirato l’intera operazione del Tfr in busta paga è stata quella di incrementare, nell’immediato, il reddito a disposizione delle famiglie proprio quando è forte e prevalente la loro propensione (lo ha riconosciuto lo stesso premier Renzi in una recentissima intervista televisiva) a risparmiare e ad accantonare liquidità, piuttosto che a spendere e a consumare. Proprio perché il possibile svincolo della liquidazione metteva, almeno in parte, a rischio l’ammontare delle risorse (riguardanti il Tfr inoptato nelle aziende da 50 e più dipendenti) che confluivano, come entrate correnti, nel Fondo tesoro gestito dall’Inps, il governo ha ritenuto necessario ricorrere, a copertura, a una maggiore tassazione del risparmio previdenziale, ignorando la sua funzione essenziale e creando non pochi problemi a un settore – quello della previdenza a capitalizzazione – finora ritenuto di rilevanza strategica, bisognoso di interventi di sostegno, piuttosto che di un colpo alla nuca (lo affermiamo, alla faccia di quanti sostengono che è “liberale” lasciare ai lavoratori la facoltà di decidere dei loro soldi).

A fronte di questo “cambiamento di verso” repentino nella Legge di stabilità ve n’è stato un altro di segno ugualmente inquietante che non ha trovato alcuna correzione al Senato, nonostante, nel dibattito, si fosse affacciata qualche ipotesi in tal senso (peraltro discutibile). Si tratta del famoso “emendamento Gnecchi” che, in pratica, ha ripristinato il pensionamento di anzianità (cancellando quel simulacro di disincentivo previsto dalle legge Fornero per chi se ne avvaleva prima di aver compiuto 62 anni) fino a tutto il 2017. Con il pretesto delle “pensioni d’oro” è stata inserita, inoltre, la clausola di garanzia non utilizzata nel 2011, in forza della quale nessuno potrà conseguire – attraverso il calcolo contributivo pro rata – un trattamento superiore a quello che avrebbe percepito sulla base delle regole vigenti prima della riforma Fornero (ovvero con l’applicazione del calcolo retributivo): una scelta opinabile, ma che rispettiamo.

Troviamo, invece, assurdo che, dal 2015, sia tagliato dalla pensione l’eventuale bonus derivante dall’applicazione del calcolo contributivo a chi è già andato in quiescenza. I beneficiari (alti burocrati, docenti, magistrati, in particolare) sono accusati di essere rimasti in servizio proprio per assicurarsi, grazie a quanto consentiva apertamente la legge del 2011, una pensione più elevata. Il che, in Italia, sembra offendere il comune senso del pudore. In sostanza, da noi, dovrebbero essere puniti non solo i “furbetti”, ma anche gli “stakanovisti”: sia quelli (e sono tanti) che una “pensione d’oro” l’hanno ottenuta facendo lobby, sia coloro che se la sono guadagnata, alla luce del sole e in modo conforme alle leggi, lavorando più a lungo, grazie a doti di talento e professionalità.

Un’ultima considerazione riguarda “l’aggancio in orbita” – mancato – tra il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (di cui al Jobs Act) e il bonus (fino a 8mila euro) per le assunzioni che avrebbe dovuto favorirne il decollo. Con tutta la buona volontà per il varo del decreto legislativo recante il contratto di nuovo conio si andrà – ben che vada – alla fine del prossimo mese di gennaio, mentre l’incentivo entrerà in vigore all’inizio dell’anno. Tenuto conto che il beneficio sarà operante solo per le assunzioni avvenute nel 2015, anche la perdita di un solo mese produrrà qualche effetto.