Lo schema di decreto delegato sulle tutele previste per il  contratto a tempo indeterminato di nuovo conio introdotto dal Jobs act Poletti 2.0 è sottoposto a critiche, in particolare per due questioni principali: l’estensione delle norme sul licenziamento economico anche a quelli collettivi e la mancata applicazione (a stare alle dichiarazioni dei ministri e del Premier)  delle nuove regole ai nuovi assunti della Pubblica amministrazione. Ad avviso di chi scrive, le scelte del governo sono corrette, ma le motivazioni con cui le sostiene sono inadeguate e rischiano di dare ragione – anche in forza della superficialità dei media – a quanti hanno l’abitudine di “sparare sulla Croce rossa”.



Cominciamo dalla questione dei licenziamenti collettivi. La materia è disciplinata dalla legge n.223 del 1991, che ha sostanzialmente recepito e ampliato una procedura contenuta in accordi interconfederali risalenti agli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. In sostanza, la tutela contro i licenziamenti collettivi (in numero di almeno cinque) consiste in un confronto sindacale da svolgersi in un tempo definito e che può concludersi con un accordo o no. Terminata la procedura, il datore di lavoro è nella facoltà di procedere ai licenziamenti (non necessariamente nel numero richiesto ma anche in un uno inferiore), mentre le organizzazioni sindacali acquistano – se non vi è stato accordo – piena libertà d’azione. A questo punto  il datore – il quale fino a quel momento ha esposto solo l’esigenza di ridurre numericamente il personale –  è autorizzato a inviare le lettere di licenziamento nominative a propri dipendenti considerati in esubero. 



Così, in pratica, il licenziamento collettivo si trasforma in licenziamenti individuali, in quanto l’imprenditore è tenuto a seguire dei criteri (anzianità di servizio, carichi di famiglia, ecc.) nell’individuazione dei licenziati, i quali possono ricorrere al giudice se ritengono violata l’applicazione di quei criteri nei loro confronti e fruire delle tutele previste, compresa la reintegra nel posto di lavoro (nei casi limitati, previsti dalla legge Fornero). Il datore, però, è legittimato a licenziare altri lavoratori al posto di quelli reintegrati. 

Che cosa cambierebbe a seguito delle nuove disposizioni del Jobs Act? Che per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del nuovo regime (a meno che non intervengano modifiche a quanto è scritto nello schema della vigilia di Natale) la sanzione, nella fattispecie richiamata, sarebbe la medesima di quella prevista per il licenziamento economico individuale: ovvero un’indennità risarcitoria. Il che sembra corretto, essendo i licenziamenti collettivi tipicamente economici e per di più essendo preceduti (e tutelati) da un confronto in sede sindacale. 



Resta il problema, anche in questo caso, delle differenti normative che continuerebbero a valere per le “vecchie” assunzioni. Ma questo è un ulteriore caso di  quel “dualismo” che è il principale difetto di tutto il Jobs act Poletti 2.0. 

Passando alla questione dell’applicabilità al pubblico delle nuove regole del recesso individuale ai nuovi assunti,  la tesi del governo è condivisibile, ma viene spiegata nella maniera sbagliata. Sembrerebbe, infatti, che l’esecutivo intenda soltanto difendere l’inamovibilità dei pubblici dipendenti e che lo faccia con argomenti privi di qualsiasi consistenza, come se l’assunzione tramite concorso comportasse un divieto assoluto di licenziamento o si dovesse fare un favore a Marianna Madia. 

Pur riconoscendo che, per maggiore chiarezza, nel testo dovrebbe essere aggiunta  una norma che stabilisca l’esclusione (come avviene nella legge Fornero), la disciplina introdotta dal Jobs Act non è meccanicamente applicabile al pubblico impiego per almeno due motivi. In primo luogo, perché nella Pubblica amministrazione non è contemplato quel licenziamento individuale per motivi economici che è tanta parte del nuovo provvedimento. È prevista una procedura specifica di messa in mobilità del personale in esubero che svolge, mutatis mutandis, la funzione attribuita, nei settori privati, alla cassa integrazione e all’Aspi. Se poi, nei fatti, a tale procedura le amministrazioni non fanno ricorso, il problema non si risolve estendendo ad essa delle regole inapplicabili. 

Quanto, poi, ai licenziamenti disciplinari, nel dlgs n.165 del 2001 – una legge fondamentale per il pubblico impiego – sono sancite disposizioni specifiche che regolano la materia, recanti l’elencazione delle fattispecie che danno luogo a quella sanzione. Se si ritiene necessaria una maggiore omogeneità tra il comparto pubblico e quello privato occorrerebbero quanto meno delle norme di coordinamento, rispettose comunque delle differenze. 

Nessuno invece parla di una norma  più stupida  che demagogica (anche perché nessuno ha mai messo in dubbio laratio della esclusione). Si tratta dell’articolo che estende la nuova disciplina del licenziamento alle cosiddette organizzazioni  di tendenza (ovvero ai partiti e sindacati, ecc.). Il fatto più grave è che, nello schema, a esse siano estese, per quanto riguarda i nuovi assunti, anche le regole sul licenziamento discriminatorio, perché era proprio questa la forma principale di recesso considerata non sanzionabile dalla dottrina e dalla giurisprudenza, prima ancora che dalla legge. 

Vuol dire che le parrocchie dovranno tenersi un sagrestano convertito all’Islam o che il Pd non potrà licenziare un dipendente che si iscrive Forza Nuova. Questi potranno essere licenziati solo se assunti prima dell’entrata in vigore della nuova legge.