La riforma delle pensioni del governo Monti è sotto tiro. Mentre la Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità del quesito referendario abrogativo presentato dalla Lega e sostenuto dalla Cgil, continua il “lavoro ai fianchi” in Parlamento. Nel disegno di legge di stabilità, arrivato al Senato dopo il voto della Camera, fa sfoggio di sé l’emendamento a prima firma Gnecchi che, in pratica, ha riaperto, almeno fino a tutto il 2017, la questione del pensionamento di anzianità, abolendo la modesta penalizzazione per i trattamenti percepiti a un’età inferiore a 62 anni.



È proprio questo l’obiettivo a cui gli aficionados delle smantellamento hanno dato priorità: quello di tornare ai bei tempi (è stato così fino al 2010) quando era possibile andare in quiescenza prima di aver compiuto 60 anni. Dopo aver varato ben sei sanatorie a favore dei cosiddetti esodati che hanno interessato oltre 170mila lavoratori (per un onere cumulato a regime di una dozzina di miliardi), ora si cerca di predisporre, con il pretesto della flessibilità, una soluzione di carattere strutturale. In sostanza, resta radicata l’idea che se si perde il lavoro a una certa età l’alternativa rimanga soltanto quella del pensionamento.

Al Governo basterà rispolverare alcune proposte già impostate dall’esecutivo precedente (autore, peraltro della sesta salvaguardia pro-esodati) come la staffetta anziano/giovane con totale copertura figurativa dei contributi a favore del primo, affinché non sia penalizzato l’importo della pensione; oppure l’idea dell’acconto – come prestito restituibile a rate – sulla pensione in caso di perdita del lavoro in prossimità della maturazione dei requisiti. Adesso, essendo tornato l’argomento di attualità grazie a una “velina” dell’Inps, si sta pensando di prolungare l’opzione-donna magari estendendo l’opportunità anche agli uomini: ovvero riconoscendo la possibilità di optare per la quiescenza al raggiungimento dei 57 anni di età se dipendente o 58 anni se lavoratrice autonoma, a cui sommare il tempo necessario per l’esercizio del diritto (la cosiddetta finestra rispettivamente di 12 o di 18 mesi) e l’ulteriore periodo derivante dall’aggancio automatico all’attesa di vita.

A opporsi, fino a quando le sarà consentito, è la Ragioneria generale dello Stato, che non solo è preoccupata per la messa in discussione di un risparmio a regime di 80 miliardi, ma teme anche gli effetti che un logoramento della riforma determinerebbe per la credibilità del nostro Paese. Ma davvero c’è l’esigenza di scardinare – nel punto-chiave del superamento della pensione di anzianità – un caposaldo del risanamento dei nostri conti pubblici? Non si direbbe a leggere, con onestà intellettuale, l’ultimo rapporto del Censis (2014).

La spesa pubblica per pensioni – sta scritto – è pari al 61,9% della spesa per prestazioni sociali ed è la quota più elevata in Europa: di ben 16 punti superiore alla media Ue. L’importo lordo medio dei redditi pensionistici è di 1.284 euro mensili, ma il 41% dei trattamenti erogati è inferiore ai 1.000 euro. Le pensioni costituiscono il 64,3% del reddito familiare degli anziani, i redditi da capitale il 27,6%, quelli da lavoro dipendente o da libera professione l’8,1%. “Di particolare importanza – prosegue il Censis – sono le forme di partecipazione al mercato del lavoro, che sfatano il tabù di una piena coincidenza tra terza età e pensionamento o, più ancora, di una definitiva fuoriuscita dal mercato del lavoro”.

Secondo il Rapporto, sono quasi 2,7 milioni le persone di 65 anni e oltre che svolgono un’attività lavorativa regolare o in nero: 1,7 milioni di tanto in tanto, poco meno di un milione con continuità. I longevi dispongono poi di “una solidità patrimoniale che è aumentata negli anni”. Infatti, la ricchezza familiare netta delle famiglie anziane è cresciuta del 117,8% tra il 1991 e il 2012 (quella del totale delle famiglie del 56,8%) e vale in media 237mila euro. Se nel 1991 gli anziani detenevano il 19,3% della ricchezza nazionale netta totale, oggi la quota è salita al 34,2%. Inoltre, il 79,6% della famiglie anziane (rispetto al 71,6% del totale delle famiglie italiane) possiede almeno un immobile. “Il descritto quadro – è la conclusione del Censis – di buona disponibilità economica dei longevi in generale ridimensiona letture poveriste che troppo spesso associano la vecchiaia alla povertà e alla marginalità”. A considerazioni analoghe arriva anche il rapporto per il 2014 “La finanza pubblica in Italia” (a cura di Alberto Zanardi per Il Mulino) dove viene fatta notare “la presenza di una generale tendenza nelle condizioni di reddito dei neo pensionati, che vanno sempre più a situarsi nel primo 20% della distribuzione del reddito e sempre meno si trovano nel 20% con redditi più bassi”. Sarà venuto, pertanto, il momento di cambiare rappresentazione della realtà quando si parla di pensionati?