Se non fossero convinti di concentrare in sé tutta la sapienza dell’universo i leader sindacali adesso dovrebbero recitare un mea culpa: quello di aver perduto apposta l’occasione dei contratti Expo. A che cosa intendiamo far riferimento? Nel testo iniziale del decreto legge n.76 del 2013 (il cosiddetto pacchetto Giovannini) era contenuta una norma che posticipava oltre i 12 mesi di cui alla legge n.92 del 2012 e fino a tutto il 2015, la possibilità di assumere a termine esonerando i datori dalla trappola di indicare la causale. In sostanza, si trattava di “liberalizzare” l’utilizzo dei contratti a tempo determinato nella prospettiva e durante lo svolgimento di un evento eccezionale come l’Expo 2015, prevedendo uno strumento di flessibilità, di carattere sperimentale temporaneo, dal momento che le imprese interessate non avrebbero mai potuto caricarsi di organici stabili, in modo addirittura preventivo.



Durante la conversione del decreto la norma venne stralciata e rinviata a un avviso comune per il quale il ministro Enrico Giovannini si affrettò ad aprire un tavolo di confronto nel mese di settembre dello scorso anno. Ben presto si capì che quel negoziato era destinato ad arenarsi. Alla stregua di Bertoldo che, nella favola, ottenuto da Re Alboino il diritto di scegliere l’albero a cui essere impiccato, scarta ogni possibile pianta che non sia un piccolo fuscello di pochi centimetri, anche i sindacati (in primis la solita Cgil) hanno insistito per individuare le aree territoriali e i settori (a loro dire collegati all’Expo) nei quali fosse consentito applicare le nuove regole. Non arrivando così a capo di nulla perché l’operazione avrebbe avuto un senso soltanto se considerata come un’opportunità per l’apparato produttivo su tutto il territorio nazionale.



Il limite temporale, che includeva in sé anche il criterio della sperimentalità, avrebbe permesso, in sede di verifica degli effetti sull’occupazione, di assumere o meno, a ragion veduta, delle ulteriori decisioni di carattere strutturale. Oggi i sindacati si trovano ad affrontare una riforma del contratto a termine ben più robusta e definitiva di quella prefigurata a suo tempo. E si dividono. Mentre la Cisl riconosce che la stipula di un contratto a termine è comunque una forma di impiego corredata di precise garanzie, la Cgil, dopo 48 ore di disattenzione, ha preso posizione contro le nuove disposizioni contenute in proposito nel decreto legge (le sole norme del Jobs act a essere immediatamente operative, insieme a quelle sull’apprendistato e i Durc), evocando il pericolo di una maggiore precarietà. Ma ricordiamo a questo punto di che cosa si tratta.



Il pacchetto Poletti permette, infatti, che la mancata indicazione di una causale accompagni un’assunzione a termine per tutti i 36 mesi di durata consentita. All’interno di questo arco temporale vi potranno essere ben 8 proroghe alla sola condizione che il lavoratore non cambi le mansioni per le quali è stato assunto la prima volta. Nel caso che si proceda a rinnovi, sempre nell’ambito dei 36 mesi, si dovranno rispettare le pause di 10 o 20 giorni previste. L’acausalità è estesa anche alla somministrazione. Il vincolo quantitativo del 20% di contratti a termine, rispetto all’organico, è derogabile per via contrattuale e nei casi di attività stagionali; sono fatte salve le sostituzioni e la possibilità di stipulare comunque un contratto a tempo determinato anche da parte delle aziende che impiegano fino a 5 dipendenti.

Per quanto riguarda, invece, il contratto d’apprendistato viene superato l’obbligo della forma scritta, quello di stabilizzare una quota di apprendisti assunti in precedenza se si intende assumerne di nuovi (da tale obbligo erano escluse le piccole imprese), mentre viene ridotta la retribuzione erogata per le ore dell’espletamento dell’obbligo di formazione. Questo è quanto passa il convento. Occorre riconoscere che si tratta di una svolta, tanto più significativa se consideriamo che dopo il varo del testo del decreto erano sorti parecchi dubbi interpretativi che parevano limitarne la portata innovativa; tali dubbi sono stati chiariti da un documento del governo che ha rafforzato gli aspetti di cambiamento.

La riforma del contratto a termine (il cui impiego viene sottratto al “capriccio” del giudice) è tanto più importante per altri due motivi: 1) se ne rafforza la centralità al momento dell’assunzione (già ora pari a due terzi del totale limitatamente ai dati di flusso); 2) si rende marginale l’invenzione intellettualistica del contratto unico a tempo indeterminato e a tutela crescente non solo perché, per ora, è materia della delega, ma soprattutto perché ben pochi datori di lavoro ne faranno uso (anche se si dovesse alleggerire la protezione in caso di licenziamento) potendo avvalersi per un triennio di un contratto a termine “liberalizzato”.