Stando a quanto scrivono i giornali, c’è da essere incuriositi per i contenuti del Jobs act, ormai annunciato in arrivo tra un paio di settimane. Verrebbe quasi da chiedersi come mai norme che sono state contrastate per decenni oggi dovrebbero trovare via libera e procedere speditamente verso il loro ingresso nell’ordinamento. Poiché non sono problemi nostri, ma del governo e della sua maggioranza, accontentiamoci di formulare benevoli auspici e di rimanere in trepida attesa, pronti a lodare il governo se, effettivamente, le speranze di una radicale innovazione non andranno deluse.
Cerchiamo, però, di fare il punto. Tralasciamo la questione del taglio del cuneo fiscale e contributivo: Matteo Renzi nelle comunicazioni sulla fiducia ha indicato un’operazione da dieci miliardi da realizzare nei prossimi mesi. Ammesso e non concesso che si risolvano i problemi di copertura, non è chiaro a chi sarà rivolta la misura: se andrà, cioè, a beneficio del prelievo fiscale sui lavoratori o a ridurre il costo del lavoro per le imprese. Evidentemente sarebbe la seconda soluzione a dare fiato all’economia, anche se l’intervento dovrebbe essere selettivo e mirato e, soprattutto, condizionato a impegni delle imprese a favore di una maggiore occupazione.
Più definite sembrano essere le nuove regole in materia di lavoro. Si parla contemporaneamente di dare corso al contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti e di ampliare l’ambito temporale dell’acausalità per i contratti a termine, portandola dagli attuali 12 a tutti i 36 mesi “canonici”. Nella prima ipotesi, nei primi anni del rapporto di lavoro, in caso di licenziamento per motivi economici non sarebbe prevista alcuna tutela di carattere reale (che resterebbe invece nel caso dei licenziamenti discriminatori e – crediamo – per motivi disciplinari), ma soltanto obbligatoria (basata su un’indennità risarcitoria).
Alcuni prefigurano, addirittura, che l’indennità possa essere erogata direttamente senza neppure andare in giudizio (il che è abbastanza discutibile visto che a nessuno può essere inibito di rivolgersi al suo giudice naturale). A questa misura, che consisterebbe in una riforma importante del contratto a tempo indeterminato, dovrebbe accompagnarsi l’accennato intervento sui contratti a termine. Eliminare il cosiddetto causalone (che ha creato problemi di applicazione in giudizio) per tutta la durata in cui è consentito far ricorso ai contratti a tempo determinato sarebbe un’impareggiabile misura di flessibilità.
Di un provvedimento siffatto si era parlato anche nel testo iniziale del “Pacchetto Giovannini”, l’anno scorso, legandolo, in via sperimentale, allo svolgimento dell’Expo. Poi la norma era stata stralciata e affidata a un avviso comune delle Parti sociali che non ha mai avuto esito. Ritornare a quell’ipotesi, peraltro, a quanto sembra, in maniera strutturale darebbe certamente un grande contributo a una maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Ma anche auspicando una siffatta prospettiva viene da chiedersi quanto segue: quale sarà mai l’impresa che – potendo avvalersi di un contratto a termine della durata fino a tre anni, privato dell’obbligo di motivarne le esigenze sempre verificabili da un giudice che potrebbe non ritenerle valide e trasformare l’assunzione a tempo indeterminato – si avvarrà del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti? Ma pur ammettendo che il nuovo istituto venga adottato in ragione, magari, di qualche agevolazione fiscale e/o contributiva, non finirà per sovrapporsi al contratto di apprendistato?
Il primo monitoraggio sull’applicazione della legge Fornero (legge n.92/2012) ha messo in evidenza il favore con cui è stata accolta dalle aziende l’acausalità fino a 12 mesi nel contratto a tempo indeterminato. Sarebbe senz’altro una buona politica proseguire, ampliandolo, questo percorso. Ma occorre scegliere una strada principale da percorrere senza incertezze. I bene informati garantiscono che anche il codice semplificato del lavoro subirà un’accelerazione, essendo questo il biglietto da visita con cui Renzi vuol presentare il suo governo ad Angela Merkel.
Poi c’è il programma “Garanzia giovani”, promosso in tutti i paesi e co-finanziato dall’Ue. La sua novità sta proprio nel mettere a prova i servizi per l’impiego pubblici e privati nello svolgere una funzione di politica attiva. È questa la svolta di valore generale che va oltre i risultati che si potranno ottenere, nell’opera di “stanare” i neet offrendo loro un’opportunità lavorativa e formativa e favorendo così il loro approccio con il mercato del lavoro. A fronte di tale impegno (che non è chiamato a risolvere il problema dell’occupazione giovanile, che non crea posti ma cerca di coprire quelli che ci sono), aver fatto “tabula rasa” nel dicastero del Lavoro non è stato un atto sensato.
Sul versante degli ammortizzatori sociali si parla di una nuova Aspi estesa anche ai lavoratori precari, finanziata in parte con le risorse destinate alla cassa integrazione in deroga con l’aggiunta di un apporto di 1,8 miliardi. La soluzione è tuttora ingarbugliata per tanti motivi: in primo luogo, perché vi è differenza tra gli effetti della cassa integrazione (durante quel periodo il rapporto di lavoro prosegue) e quelli dell’Aspi (che interviene quando il rapporto di lavoro è risolto); in secondo luogo, perché l’entrata in vigore di sostanziali cambiamenti in questo settore richiede una fase di transizione improntata alla gradualità. Infine, 1,8 miliardi non sono facili da reperire.