In vista delle elezioni europee, il governo si accinge a predisporre un pacchetto di risultati importanti in materia di lavoro. È partito il programma “Garanzia giovani” con circa 30mila iscrizioni (21mila delle quali a livello centrale). Non tutte le Regioni sono state puntuali, ma la maggioranza di esse si trova nel novero di quelle che hanno già sottoscritto la convenzione con il ministero o hanno già deliberato in giunta. In sostanza, la sfida è cominciata. C’è bisogno di un piano più adeguato della comunicazione: finora il ministero del Lavoro ha tenuto una linea di condotta prudente nel valorizzare l’iniziativa, perché preoccupato della possibilità concreta di dare delle risposte ai giovani che aderiscono.

Perché ciò avvenga occorre innanzitutto sollecitare il sistema delle imprese a fornire delle opportunità. Poi c’è il grande punto interrogativo dei Centri per l’impiego e delle Agenzie per il lavoro: saranno in grado di intermediare la domanda e l’offerta di una opportunità di accesso al mercato del lavoro? A esaminare i piani delle Regioni si scoprono delle differenza importanti per quanto riguarda la scelta degli obiettivi: alcune concentrano le loro risorse sulla formazione (il che sollecita parecchi dubbi), altre sui tirocini e cosi via. Alcune hanno avviato processi di sinergia tra le strutture pubbliche e quelle private, altre pensano di agire soltanto con i Centri per l’impiego. L’importante sarà seguire l’iniziativa attraverso un’adeguata azione di monitoraggio che consenta, magari, una differente allocazione delle risorse verso gli obiettivi più richiesti.

In settimana arriverà in porto, attraverso la conversione in legge, anche il decreto Poletti, in cui è contenuta qualche novità, soprattutto dopo le correzioni del Senato (o gran bontà del bicameralismo!). Queste novità stanno sullo sfondo del bonus fiscale di 80 euro mensili a cui il governo tiene tanto, fino al punto di non tollerare riserve o critiche e di reagire (lo ha fatto il premier Renzi con i funzionari del Servizio Bilancio del Senato) in modo scomposto e scorretto.

Ma la posta in gioco il 25 maggio è molto più delicata e complessa. La discriminante fondamentale della sfida è tra chi vuole proseguire il cammino difficile di una maggiore integrazione come strategia migliore per uscire dalla crisi e che, pur di raccogliere un facile consenso, si assume la responsabilità di avvelenare i pozzi del vivere civile, ipotizzando fuoriuscite che non porterebbero da nessuna parte, neppure a quelle svalutazioni competitive che possono dare l’ebbrezza e l’illusione di una competitività drogata, ma che minano per sempre l’equilibrio di un sistema produttivo nell’era della globalizzazione. Nessun Paese può salvarsi da solo fuori dall’Europa che non è un continente in rapido e sicuro declino. Così come siamo, oggi l’Ue con circa l’8% della popolazione mondiale detiene il 18% del Pil, un punto in più degli Usa, tre in più della Cina e dodici in più dell’India. Eppure tra 25 anni nessun Paese europeo farà parte del G8 e solo la Germania resterà entro le prime dieci economie al nono posto. Ma è la sua unità che ne fa ancora la forza. Ma davvero l’Ue è una severa matrigna tedesca come viene rappresentata dalla propaganda populista?

Gli italiani sanno che il bilancio 2014-2020 assegna – in chiave di cofinanziamento – risorse rilevanti al nostro Paese per le politiche di coesione territoriale? Sanno che è in corso la riforma della Pac con un’importante riduzione della spesa agricola? Sanno che presto 200 banche europee di cui 15 italiane, saranno sottoposte alla vigilanza della Bce? Quanto all’euro val la pena di porsi qualche semplice domanda: perché nessuno dei 18 paesi membri del club si è posto il problema di uscire o di adottare una sorta di euro dei poveri? Perché si è aggiunta la Lettonia e altri sette paesi sono in lista d’attesa? La stessa Grecia ha evitato con cura di essere espulsa dal club e pur di restare nell’euro ha subito il governo della trojka.

Sul Fiscal compact si stanno concentrando una montagna di bugie. L’obbligo di ridurre di un ventesimo ogni anno la distanza tra il livello del debito e il 60% del Pil, innanzitutto, evolve al ribasso man mano che il debito si riduce o aumenta il Pil nominale (con una soluzione di sostanziale equilibrio a fronte di una crescita nominale del 2,8%). Ma soprattutto va fatto notare che non c’è nessun automatismo ma sono previste delle procedure per valutare quali soluzioni trovare nel caso in cui uno Stato non fosse in grado di rispettare l’impegno assunto con l’adesione al Fiscal compact.