Dopo la scoperta di alcuni documenti nell’archivio di Claudio Scajola (tratto in arresto con l’accusa di aver favorito la latitanza e l’espatrio di un pregiudicato) si è riaperto il caso Biagi. La Procura bolognese indaga l’ex ministro per il reato di omicidio per omissione, perché si sarebbe rifiutato di assegnare al Professore bolognese una tutela di pubblica sicurezza benché la sua fosse una posizione a rischio di attentato e che in tal senso gli fosse stata segnalata.
Chi scrive, essendogli amico, è stato duramente colpito dall’assassinio di Biagi e non può non notare l’anomalia di taluni fatti. È singolare, ad esempio, che assuma rilevanza il livello di conoscenza di Scajola, allora titolare degli Affari interni, e che tale circostanza, oggi, a dodici anni di distanza da quel tragico 19 marzo, possa determinare o escludere la responsabilità dell’ex ministro. A parte il fatto che Marco non aveva esitato a rivolgersi a tutte quelle personalità che erano in grado (almeno così pensava) di risolvere il suo problema e garantire la sua incolumità (il 15 luglio del 2001 aveva persino inviato, tra le altre, una lettera, recante le sue preoccupazioni, al Presidente della Camera Pier Ferdinando Casini – che Biagi conosceva personalmente – il quale si era sicuramente attivato nei confronti del Viminale), l’identikit del Professore era comparso, nero su bianco, nel rapporto dei Servizi che indicavano, tra i possibili obiettivi del terrorismo, figure di consulenti ministeriali su problematiche di particolare delicatezza.
Di quel rapporto, ampi stralci furono pubblicati su di una importante rivista alcuni giorni prima del delitto. Ecco perché Claudio Scajola non poteva non sapere, a prescindere che (come in verità accadde) avesse ricevuto delle richieste e delle intercessioni dirette con la richiesta di ripristinare il servizio di scorta soppresso. Il fatto è che negli ambienti che avrebbero dovuto provvedere Marco Biagi veniva considerato un visionario, se non addirittura un millantatore. Ne è prova una recente intervista a Il Corriere della Sera di Luciano Zocchi, a suo tempo capo della segretaria del ministro Scajola al Viminale, nella quale l’intervistato afferma, con riferimento al Prefetto Giuseppe Pecoraro: “Lui mi disse che Biagi si era fatto le telefonate da solo”.
Le minacce che Biagi riceveva (e che lo sollecitavano a chiedere ostinatamente il ripristino di quella protezione che gli era stata tolta) furono a suo tempo la “questione politica” dell’inchiesta, dopo la pubblicazione del carteggio elettronico tra Biagi e i suoi interlocutori. E dopo che, anni dopo, si scoprì un tabulato, fino a quel momento ritenuto inesistente, da cui risultava che Biagi diceva la verità. Come abbiamo appena ricordato, qualcuno, tra le autorità tenute a provvedere alla sicurezza del professore, lasciava intendere che, forse, quei comportamenti minacciosi erano addirittura inventati. Chi lo conosceva, sa bene che Marco non avrebbe scomodato tante persone – al punto da umiliarsi e da essere umiliato dall’arroganza di alcuni funzionari – se le preoccupazioni non fossero state fondate.
C’è un dato da tenere presente per capire la sua angoscia: Biagi era stato tutelato per un lungo periodo, poi era stato lasciato solo proprio quando le ragioni per le quali era finito sotto scorta erano diventate più stringenti e visibili (il ruolo svolto in occasione dell’accordo di Milano, quando iniziò il programma di protezione, era assai meno rilevante di quello che ricoprì, poi, al ministero del Welfare e come editorialista di punta de Il Sole 24 Ore, in una situazione politica e sociale assai più critica). Chi scrive è convinto, però, che a minacciarlo non fossero le BR, che certamente l’uccisero, ma che non usano avvertire quanti vogliono colpire.
Chi si prendeva la briga di minacciare Biagi con meticolosa perseveranza? E perché? Tra l’altro chi lo teneva di mira usava ogni possibile accortezza e, probabilmente, metodi idonei a non farsi individuare. Di primo acchito, sui tabulati telefonici. È stato proprio tale contesto di minacce che, concentrando su di sé l’attenzione, ha finito, dapprima, per depistare gli accertamenti preliminari al delitto, poi, le indagini successive; mentre, quasi certamente, tra le telefonate minatorie e il delitto non c’è alcuna diretta conseguenza. A meno di non immaginare due “linee” dell’azione terroristica, caratterizzate da una divisione di compiti e mosse dalla medesima “intelligenza strategica”.
In sostanza, si è determinato un paradosso strano: quelle minacce che, prima del delitto, non vennero giudicate un segnale di pericolo, sono diventate, poi, la chiave di volta dell’indagine sull’assassinio, nel senso che si è riaperto un filone di inchiesta parallelo, rivolto più a perseguire coloro che avevano sottovalutato quella situazione di pericolo (in funzione del delitto), piuttosto che gli autori degli atti intimidatori. Gli investigatori oggi farebbero bene a capire come e chi minacciava Biagi, attraverso telefonate che lo inseguivano ovunque: questo è un aspetto fondamentale – rimasto non chiarito in occasione della prima inchiesta dopo il delitto – per fare luce sulla dinamica e sulle responsabilità della tragedia bolognese.
C’è una lettera molto significativa di Marco a Paolo Reboani e a Maurizio Sacconi, resa nota dall’allora sottosegretario al Lavoro il 19 aprile a Modena (durante il primo convegno commemorativo). In essa Marco faceva capire di temere (e di accettare) l’emarginazione che stava incontrando, nel suo ambiente, per aver scelto di collaborare col Governo di centrodestra. Il venerdì prima della sua morte, Marco aveva firmato (insieme a Brunetta e al sottoscritto) un appello sui temi del lavoro, poi pubblicato su Il Sole 24 Ore. Non era un documento forcaiolo, ma aveva suscitato lo sdegno di un collega milanese che gli aveva inviato una mail scandalizzata (Marco gli aveva risposto per le rime).
Biagi doveva difendere la sue scelte anche nella ristretta cerchia delle persone più vicine che non gli perdonavano di lavorare per Berlusconi. Alcuni suoi colleghi giuristi hanno avuto, nei suoi confronti, atteggiamenti sgradevoli. Del Libro bianco del 2001 furono scritte affermazioni insultanti. Inoltre, un collega bolognese, molto attivo, in seguito, nel denunciare la mancata tutela, in un articolo scritto mentre il cadavere di Marco era ancora caldo, volle ribadire il suo profondo dissenso sulle questioni fondamentali del diritto del lavoro, tirando in ballo la figlia di Federico Mancini, presente al raduno dei difensori dell’articolo 18 alla sala Sirenella di Bologna, la sera di quel tragico 19 marzo; come per affermare che il seme del comune maestro era dalla parte della Cgil.
La sofferenza del professore, caduto in via Valdonica, stava nel sentirsi – per i problemi della riforma del diritto del lavoro che gli interessavano – dalla parte dell’innovazione. Trascorse gli ultimi mesi di vita confinato in una sorte di morte civile, nell’accademia e tra i colleghi. Spesso anche tra gli amici più cari. Gli toccò di andare su e giù per l’Italia a difendere ovunque lo chiamassero il progetto di legge a cui aveva lavorato e che, approvato dopo la sua morte, porta ancora il suo nome. Persino la Pastorale del Lavoro lo convocò e lo trattò con freddezza.
Ci sarà mai qualcuno che sarà chiamato a rispondere di un isolamento che trasformò Biagi in un simbolo? E che ne annunciò la morte?