Con il voto del Senato e con la seconda lettura della Camera, il decreto Poletti sul lavoro si avvia, salvo imprevisti, a essere convertito entro la scadenza del 19 maggio. Benché sia rimasto un po’ di piombo residuo nelle ali, bisogna riconoscere che il provvedimento è particolarmente innovativo, tanto che si stenta a ritrovare, andando indietro negli ultimi anni, un altro di analoga importanza. È una delle poche volte che in Italia la questione del lavoro viene affrontata venendo incontro alle esigenze reali delle imprese, riconoscendo che sono loro a creare occupazione e che, nella generalità dei casi, si comportano correttamente con i lavoratori.



Per quanto importante, la riforma Fornero (oggi eccessivamente bistrattata) era rimasta vittima, purtroppo anche sul piano culturale, di un’impostazione persecutoria figlia della logica perversa del colpire tutte le aziende per “educarne” una minoranza. Peraltro, dobbiamo notare per onestà – anche se non abbiamo in simpatia l’attuale esecutivo – che il decreto Poletti è il primo atto, attribuibile interamente al governo Renzi, destinato ad arrivare in porto prima delle elezioni europee. Buon segno. Ma – domandiamocelo – se non esistesse più il “famigerato” bicameralismo perfetto, chi avrebbe corretto il testo Damiano-Cgil che tante polemiche aveva suscitato alla Camera?



Vediamo come cambia il provvedimento sulla base degli emendamenti presentati dal sottosegretario Luigi Bobba a nome del governo, d’intesa con il relatore Pietro Ichino, il quale ha rinunciato all’emendamento che avrebbe incluso già nella legge di conversione il cosiddetto contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, accontentandosi di farne cenno nel nuovo articolo 1 che recupera, programmaticamente, il cosiddetto testo unico semplificato che dovrebbe contenere anche il nuovo istituto.

In sostanza, le norme del decreto Poletti costituirebbero un intervento urgente, vista la perdurante situazione di crisi, nella prospettiva di un nuovo testo unico del lavoro e dell’avvio sperimentale del nuovo tipo di contratto. Del resto, non solo il Ncd nutriva delle riserve nei confronti di tale innovazione, ma anche all’interno del Pd vi erano – e vi sono – delle opinione diverse. Noi profani lo abbiamo compreso, assistendo la notte del 1° maggio a una trasmissione televisiva in cui erano presenti, oltre ad Alessandra Servidori, anche Cesare Damiano ed Enrico Morando (siamo arrivati al punto che, nel Pd, devono andare in giro due…come i carabinieri). Mentre per il primo e quindi per la sinistra del partito dovrebbe trattarsi di un lungo periodo di prova – da sei mesi a tre anni -, terminato il quale il contratto dovrebbe trasformarsi a tempo indeterminato con la copertura delle tutele contro il licenziamento come riformate dalla legge Fornero, perché – purezza della ideologia! – non è ammessa l’esistenza di un contratto a tempo indeterminato privo delle tutele standard, per il secondo, renziano doc, la riforma riguarderebbe proprio i livelli di protezione – in crescita col passare del tempo – da riservare a quella fattispecie contrattuale. A noi sembra che vi sia una differenza – come dire – di lana caprina, visto che gli effetti delle due posizioni sarebbero i medesimi: eppure di questo si discute. Del resto, non ci fu, nell’antichità, un famoso neo-sofista che scrisse “L’elogio del fumo e della polvere”?



Ma tornando al decreto quali sono le modifiche, almeno quelle principali? Per quanto riguarda il contratto a tempo determinato la sanzione per il datore che eccede la quota del 20% (il riferimento restano i dipendenti a tempo indeterminato al 1° gennaio) diventa pecuniaria (dal 20% al 50% della retribuzione se l’eccedente è più di un’unità). Vengono esclusi dalla quota del 20% gli enti e gli istituti di ricerca pubblici e privati in ragione della necessaria temporaneità dell’incarico.

Passando all’apprendistato, l’obbligo di assumere una parte dei precedenti apprendisti per poter assumerne di nuovi graverà sulle imprese che hanno più di 50 dipendenti (prima erano 30). Nel caso di attività stagionali è ammesso, tramite la contrazione collettiva, l’utilizzo dell’apprendistato a termine. È questa una misura molto significativa per i settori caratterizzati da stagionalità.

Uno dei punti che avevano suscitato dissensi all’interno della maggioranza alla Camera era quello della formazione degli apprendisti. Resta la possibilità che le Regioni propongano entro 45 giorni le loro disponibilità formative alle imprese, trascorsi inutilmente i quali esse sono libere di affrontare il problema in azienda. Vengono però consentite alle imprese stesse e alle loro associazioni di proporre la loro disponibilità a concorrere a programmi di formazione pubblica. Un ordine del giorno presentato dal relatore impegna il governo a emanare una circolare interpretativa dei criteri e dei parametri che possono determinare l’inadempimento del datore di lavoro ai suoi obblighi formativi.

Sono state meglio precisate le disposizioni transitorie secondo le quali i datori devono rientrare nelle nuove regole entro la fine dell’anno in corso, a meno che non siano in grado di avvalersi di un contratto più favorevole applicabile in azienda. In caso contrario dopo tale data non è consentita la stipula di nuovi contratti a termine fino a quando l’azienda non rientri nel limite percentuale del 20% previsto.