Il decreto legge del ministro Marianna Madia, attualmente all’esame della commissione Affari costituzionali della Camera, è il paradigma del “giovanilismo” del governo dei Puffi. Nell’ansia di spalancare le porte della Pubblica amministrazione ai giovani introduce una norma di dubbia costituzionalità chiaramente discriminatoria delle persone già in quiescenza. L’articolo 6 del testo del governo stabilisce, infatti, che le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi di studio e di consulenza, né incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo di amministrazioni pubbliche, a soggetti già lavoratori pubblici e privati collocati in quiescenza, a meno che non si tratti di incarichi o cariche conferiti a titolo gratuito.



Il divieto trova applicazione agli incarichi conferiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto-legge e non riguardava, nel testo originale, incarichi o cariche presso organi costituzionali. Le amministrazioni interessate sono quelle di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 165/2001 e quelle inserite nel conto economico consolidato della Pubblica amministrazione, come individuate dall’Istat. La disposizione modifica l’articolo 5, comma 9, del D.L. 95/2012, il quale ha vietato alle pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e consulenza a soggetti in quiescenza già appartenenti ai ruoli, che abbiano svolto nell’ultimo anno di servizio funzioni e attività corrispondenti, ampliando in modo rilevante sia l’ambito soggettivo (tutti i soggetti in quiescenza), sia l’ambito oggettivo (divieto esteso al conferimento di incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni).



A prescindere da ogni valutazione di merito – ne potrebbero essere fatte tante – la norma viola chiaramente alcuni principi posti a fondamento della Costituzione. L’articolo 6 va valutato, infatti, alla luce degli articoli 3 (principio di uguaglianza), 36 (diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro) e, in particolare, 51 della Carta, il quale dispone che “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici […] in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.

Peraltro, l’articolo 51 Cost. è stato oggetto di un’interpretazione restrittiva da parte della giurisprudenza costituzionale, volta a escludere che il rinvio alla discrezionalità del legislatore possa consentire indebite discriminazioni, camuffate da “requisiti”. In particolare, la Corte ha ritenuto ammissibili solo esclusioni ragionevoli e non arbitrarie, fondate su requisiti attitudinali (come l’idoneità fisica), in nome di interessi pubblici di rilievo costituzionale (che nell’articolo 6 in commento non paiono sussistere e, in ogni caso, non vengono esplicitati). Ecco perché la disposizione viola il principio di uguaglianza in quanto discrimina (quanto alla possibilità di accesso, quanto sul piano retributivo) in base a uno “status” (il fatto di essere “pensionati”), quindi in modo irragionevole.



Si consideri, infatti, che:

– un pensionato può essere più giovane di un lavoratore in attività; quindi la norma non favorisce necessariamente i più giovani;

– la norma non tiene conto del livello di reddito (da lavoro o da pensione) di cui si è titolari (il titolare di pensione da 700 euro non potrebbe essere pagato dalla Pa.; il lavoratore attivo con redditi molto elevati potrebbe invece ricevere ulteriore retribuzione dalla Pa). Quindi la norma non ha finalità redistributive del reddito;

– la norma colpisce anche pensionati che non gravano in alcun modo sulle casse pubbliche (per esempio, professionisti delle casse previdenziali private).

Infine, come ha fatto rilevare la commissione Lavoro della Camera nel suo parere alla 1° Commissione, le amministrazioni pubbliche potrebbero essere incentivate a conferire incarichi a pensionati (che fossero ovviamente disposti a prestare gratuitamente la propria opera) al solo scopo di risparmiare. Questa avvertenza è probabilmente alla base di un emendamento approvato dalla 1° Commissione che limita gli incarichi gratuiti alla durata di un solo anno.

Poi, visto che non c’è mai limite al peggio, altri emendamenti hanno ulteriormente appesantito il carattere discriminatorio del provvedimento. Il divieto di conferire incarichi a personale in quiescenza è stato esteso anche agli incarichi negli organi costituzionali (in violazione della loro autonomia). È stato però consentito alle Regioni e agli Enti locali di nominare assessori dei pensionati. Mancava solo che ai soggetti già in quiescenza venissero negati anche i diritti politici.