“Che la crescita sia dello 0,30, dello 0,80 o dell’1,5% non fa alcuna differenza per le persone”. A leggere queste parole, qualsiasi persona di buon senso – che fatica a sbarcare il lunario, che è preoccupato perché il figlio non riesce più neppure a trovare quei lavoretti come prima della crisi e che, da anni, scruta l’orizzonte dell’economia con la speranza di vedere spuntare un raggio di sole – troverà singolari e un po’ arroganti queste considerazioni e si domanderà che fine abbia fatto quel caravanserraglio, un po’ cialtrone e un po’ strumentale, che da mesi è rivolto ottenere, dall’Ue, un minimo di flessibilità nella gestione dei parametri di bilancio. E troverà da sé la risposta: “Si è sempre detto che occorre sollecitare la crescita e adesso ci dicono che – averla o non averla – non fa differenza. Eppure, l’1,5% è quasi il doppio di quello 0,8% che il Paese insegue, invano, con affanno e stridore di denti”.
Bene. Quelle parole a vanvera le ha pronunciate il presidente del Consiglio in carica, (Pier) Matteo Renzi in un’intervista ad Alan Friedman (l’americano che ha trovato l’America in Italia). Per memoria del capo dei Puffi, se l’economia crescesse davvero dell’1,5%, la disoccupazione diminuirebbe in parallelo e l’occupazione aumenterebbe di almeno due punti, grazie alla legislazione sulla flessibilità nel lavoro, a cui il decreto Poletti – non abbiamo difficoltà ad ammetterlo – ha recato sicuramente un contributo, come dimostrano i dati più recenti sulle assunzioni a termine.
Basterebbe informarsi, leggere qualche libro, invece di limitarsi a twittare. Ma il cervello del capo dei Puffi, “in tutte altre faccende affaccendato, in queste cose è morto e sotterrato”. Se l’economia cresce o meno, non è indifferente per le persone. Un interessante saggio (Per il Lavoro, Rapporto-Proposta sulla situazione italiana, 2013, per le Edizioni Laterza) del Comitato per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana (Cei ci aiuta a comprendere e a interpretare i processi e le prospettive del mercato del lavoro lungo uno scenario a medio termine, ovvero negli anni che partono dalla crisi finanziaria e che arrivano al 2020.
Tra i tanti aspetti affrontati, a fronte di una recessione che inizia (nel 2012) quando ancora non si sono recuperati gli effetti di quella precedente (2008), il Rapporto denuncia il rischio “che le imprese si riorganizzino, adattandosi ai nuovi livelli permanentemente più bassi, attraverso ristrutturazioni della produzione o anche vere e proprie chiusure di stabilimenti”; che si produca, quindi, un “cambiamento strutturale della morfologia del nostro mercato del lavoro” e del capitale umano, in conseguenza della riduzione della base produttiva del Paese. In sostanza, che il Paese vada avanti su di una base produttiva ridimensionata. La crescita allontanerebbe questo rischio.
Si ricordi che nel secondo semestre 2006, quando ancora gli indici dell’economia avevano un segno positivo apprezzabile, l’Italia toccò livelli di occupazione mai raggiunti dal 1992 con 23.187.000 occupati e con un incremento, rispetto all’anno precedente, del 2,4% (in valore assoluto di 536mila unità). Certo, le vicende economiche non si presentano sempre allo stesso modo. Non c’è dubbio, però, che se la struttura produttiva e dei servizi fosse in grado di stabilizzare una crescita del Pil superiore all’1% anche le opportunità di lavoro tornerebbero a presentarsi e le iniziative legislative in atto (a partire dal programma Garanzia Giovani) potrebbero produrre i risultati attesi e per ora improbabili.
Ecco perché il Premier ha perso un’altra occasione per stare zitto, visto che neppure lui può ritenere che basti quel “mostriciattolo” di riforma del Senato (non si uccidono così anche i cavalli?) per risollevare il Paese. Ma forse è l’ennesima rappresentazione della favola della volpe e dell’uva. La volpe rinuncia a raccogliere quel prelibato frutto, dopo aver provato inutilmente a raggiungere il grappolo troppo in alto sulla vigna. Per consolarsi dice che l’uva era acerba. Renzi, dal canto suo, non è in grado di far ripartire l’economia; se la cava dicendo che, in fondo, la crescita non serve ai cittadini.
Intanto, continua alla Camera il metodico smantellamento della riforma delle pensioni Monti-Fornero. Nel provvedimento di conversione del decreto Madia, la commissione Affari costituzionali ha inserito un emendamento a favore degli insegnati che hanno raggiunto quota 96, che si sostanzia in una sostanziale settima salvaguardia impropria, poiché questi lavoratori potranno andare in quiescenza con le regole previgenti la riforma pur non essendo esodati, ma stabilmente occupati. Un altro emendamento ha abolito, fino al 2017, la penalizzazione economica per coloro che scelgono il trattamento anticipato, prima dei 62 anni, avvalendosi solo del requisito contributivo previsto. Questo è un primo passo verso il ripristino del pensionamento di anzianità. La Commissione poi ha reso ancor più discriminatorio il testo nei confronti dei pensionati a cui viene preclusa ogni possibilità di incarichi nella Pubblica amministrazione in palese violazione di quanto sancito dall’art. 51 Cost. e ha introdotto una norma che consente di “rottamare” i dirigenti, i medici, i professori universitari e i magistrati, obbligandoli, a discrezione delle amministrazioni, al trattamento anticipato e disconoscendo loro il diritto a raggiungere i limiti del pensionamento di vecchiaia.