Un autorevole quotidiano economico ha commentato con diversi articoli e servizi, soffermandosi in particolare sui tassi di sostituzione, il tradizionale Rapporto (2014) della Ragioneria generale dello Stato (Rgs) sulle tendenze di medio e lungo periodo della spesa pensionistica e socio-sanitaria. In sostanza, posto che gli italiani scelgano di andare in quiescenza con i requisiti minimi previsti o con il pensionamento anticipato, a fronte di una crescita annuale del Pil di poco meno dell’1,5%, il tasso di sostituzione netto per un dipendente che nel 2050 incasserà il suo primo assegno sarebbe del 73,1% (rispetto al reddito di fine carriera) con 38 anni di versamenti, mentre salirebbe al 73,6% nel 2060. Più bassi, ma di pochi punti, i tassi di sostituzione dei lavoratori autonomi.



Se invece i pensionandi di domani (parliamo della metà e oltre del secolo attuale) si convincessero a lavorare più a lungo, fino a raggiungere, ad esempio, i 70 anni, il loro trattamento, lordo e netto, sarebbe ancora più elevato. E se ci fosse un piccolo delta da colmare, l’indicazione suggerita è quella di far ricorso alla previdenza integrativa. Che dire? Sarà forse il caso di approfondire meglio e direttamente il Rapporto della Rgs, perché, per come viene riassunto negli articoli da cui abbiamo preso le mosse, non c’è proprio nulla di nuovo sotto il sole.



Più o meno si tratta dei medesimi ragionamenti che accompagnarono la riforma Dini del 1995. Adottando il calcolo contributivo (il montante su cui calcolare il trattamento è dato dalla somma degli accrediti annuali, rivalutati sulla base del Pil nominale, moltiplicato per i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età di pensionamento all’interno di un range flessibile) si ristabilì, nel 1995, un sinallagma tra contributi versati e prestazione, ma lo si fece soltanto a partire dai nuovi assunti dal 1996, mentre chi aveva, prima di quella data, almeno 18 anni di anzianità rimase interamente all’interno del meccanismo retributivo; gli altri furono inclusi nel sistema misto con il criterio del pro rata, fino a quando – dopo la riforma Fornero del 2011 – il calcolo contributivo venne esteso a tutti a partire dal 2012.



Il principale difetto della legge n. 335 del 1995 (la riforma Dini) consisteva proprio nell’aver scaricato l’equilibrio del sistema sui futuri pensionati, salvaguardando il più possibile, soprattutto sull’aspetto-chiave dell’età pensionabile, gli occupati più anziani. Tale impostazione veniva giustificata con l’alibi della previdenza complementare. Il giovane – si diceva – andrà in pensione a suo tempo con un tasso di sostituzione più basso? No problem – si aggiungeva – perché potrà iscriversi a un fondo pensione e colmare così il differenziale del trattamento pensionistico obbligatorio. Salvo dover constatare, ad anni di distanza, che l’aliquota obbligatoria del 33% per i lavoratori dipendenti (anche quelle dei parasubordinati e degli autonomi sono in crescita) non consente di avere un’adeguata base economica per la previdenza complementare.

Così, le successive riforme hanno cercato, non a caso, di rendere più breve ed equa la transizione, anche per ottenere dal sistema pensionistico un contributo al risanamento di quei conti pubblici che in grande misura ha contribuito a destabilizzare negli anni. Il fatto è che il modello prefigurato dalla riforma Dini e dagli aggiustamenti successivi è figlio di un progetto con la testa rivolta all’indietro, nel senso che non si pone l’obiettivo di come garantire ai lavoratori giovani di oggi – chiamati per decenni a versare un terzo del loro reddito per finanziare le pensioni in essere, poiché il sistema resta a ripartizione – un trattamento “adeguato” come previsto dall’articolo 38 della Costituzione.

Qual è infatti la preoccupazione dei giovani e per i giovani? Non tanto quella di vedersi applicare il calcolo contributivo, perché il nuovo sistema (ci avvaliamo di termini strettamente giuridici) non produce, a fronte di una continuità e regolarità di lavoro, un “danno emergente”, ma solo un “lucro cessante” in quanto vengono meno le rendite di posizione dipendenti dal modello retributivo. Se un neo-assunto ha la fortuna di lavorare a lungo e senza interruzioni andrà in pensione con un tasso di sostituzione socialmente sostenibile (lo dimostra da ultimo proprio il Rapporto RGS 2014) anche sottoponendosi interamente al calcolo contributivo.

L’incerta prospettiva pensionistica dei giovani non deriva, dunque, dalle regole dell’accreditamento dei contributi e dal meccanismo di calcolo della prestazione, ma dalla loro condizione occupazionale precaria e saltuaria durante la vita lavorativa. Il loro non è un problema connesso al sistema pensionistico, ma al mercato del lavoro e all’economia. Una carriera contraddistinta da un accesso tardivo al lavoro, da rapporti interrotti e discontinui (senza potersi giovare, inoltre, di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che cucia tra di loro i differenti periodi lavorativi, magari contraddistinti da rapporti regolati da regimi differenti) finirà per influire negativamente anche sulla pensione.

È evidente che occorre migliorare, nel senso di una maggiore uniformità, le tutele durante la vita lavorativa; ma nessuno può illudersi che si possa tornare a un lavoro dipendente stabile come dato generale; e neppure che si riesca a salvare la pensione di domani attraverso un’imposizione forzosa, persino incentivata, dei rapporti di lavoro standard, oggi. Il salto di qualità sta nel mettere in sinergia le politiche a favore dell’occupazione dei giovani con un riordino del sistema pensionistico che abbia lo sguardo rivolto in avanti e cioè a un modello che sia in grado di tutelare, al momento della quiescenza, il lavoro di oggi e di domani in tutte le sue peculiarità e differenze rispetto al passato.

Da un governo che ha fatto del giovanilismo un programma, anzi, quasi una fede, abbiamo il diritto di aspettarcelo.