Il ministro Giuliano Poletti, per ora, ha raccolto soltanto secche smentite: “Le pensioni non si toccano”, ha dichiarato il premier Matteo Renzi, seguito a ruota dal sottosegretario Graziano Delrio. Ma è davvero questa la realtà? Nutriamo dei ragionevoli dubbi. Tanto al Lavoro quanto all’Economia, sono allo studio, infatti, talune ipotesi di tagli, sia temporanei che strutturali, nell’ambito del sistema pensionistico. A questa considerazione si può replicare che gli uffici fanno il loro mestiere, alla stregua degli Stati maggiori che preparano piani di guerre che non saranno mai combattute. Nel nostro caso, però, ci sono degli aspetti difficilmente eludibili.



Il nodo cruciale della previdenza – al di là di quanto sarà fatto nella Legge di stabilità – è scritto nell’agenda del Paese per diverse ragioni, in parte contraddittorie tra di loro. Si sta cercando di trovare una soluzione per quei lavoratori “anziani” che, terminata la copertura degli ammortizzatori sociali, non rientreranno al lavoro, perché si presume che le imprese si stiano riorganizzando adattandosi ai nuovi livelli produttivi permanentemente più bassi. Per costoro è in corso di esame la possibilità di anticipare la pensione. In fondo, sarebbe la via più facile e anche quella che assicurerebbe il maggior consenso sociale in un Paese, come il nostro, dove è aspirazione massima e diffusa quella di andare in quiescenza il prima possibile.



A parte quanto è stato (stra)fatto a favore dei cosiddetti esodati, il governo si prepara a salvaguardare, con regole “più flessibili”, gli “esodandi”, ovvero non più i lavoratori che restarono intrappolati nei nuovi requisiti introdotti dalla riforma del 2011, ma quelli che, nei prossimi anni, perderanno il lavoro in prossimità della pensione. In sostanza, resta radicata l’idea che a una certa età, se si perde il lavoro, l’alternativa rimanga soltanto quella del pensionamento. A Poletti basterà rispolverare alcune proposte già impostate dal suo predecessore Enrico Giovannini, il quale aveva esposto diverse idee in tema di pensioni: dapprima la staffetta anziano/giovane con totale copertura figurativa dei contributi a favore del primo, affinché non fosse penalizzato l’importo della pensione; poi, fece capolino l’idea dell’acconto – come prestito restituibile a rate – sulla pensione in caso di perdita del lavoro in prossimità della maturazione dei requisiti.



La prima soluzione non ebbe seguito a causa dei costi che avrebbe comportato; la seconda non piacque ai sindacati, che allora non erano ancora precipitati nell’attuale condizione di irrilevanza (soltanto perché Enrico Letta li teneva in considerazione). Poi, sullo sfondo c’è sempre il big bang: come studiare una soluzione di carattere strutturale che consenta di realizzare quella flessibilità sull’età pensionabile, sollecitata da tutti i gruppi di un Parlamento che in materia soffre di gravi propensioni peroniste (lo si è notato anche negli emendamenti della Camera alla legge Madia). Tale obiettivo non ha avuto finora – e per fortuna – seguito non solo per la mole di risorse che sarebbero occorse, ma anche perché sarebbe stato politicamente rischioso manomettere gravemente la riforma Fornero a cui il Paese deve tanto del suo recupero di credibilità sui mercati internazionali.

Sarebbe, infatti, profondamente errata – e pericolosa per un Paese perennemente sotto esame a Bruxelles – una misura di carattere generale (applicabile anche a chi il lavoro continua ad averlo ma vuole anticipare per motivi suoi il pensionamento) a modifica dei requisiti previsti dalla riforma Fornero per l’età pensionabile. Il sistema pensionistico non può tornare alla situazione precedente tale riforma quando era possibile andare in quiescenza in età inferiore a 60 anni grazie al canale della anzianità che, a fronte di 40 anni di contribuzione, non richiedeva alcun vincolo anagrafico. Non si dimentichi che, ancora nel 2010, l’età media di coloro che percepirono il trattamento di anzianità era pari a 58,3 anni se dipendenti, a 59,1 anni se autonomi.

Inoltre, prima o poi si dovrà pure prendere atto che, in considerazione dei trend demografici presenti e attesi, occorrerà lavorare più a lungo e investire quindi in interventi a favore dell’invecchiamento attivo, piuttosto che mandare in pensione persone ancora in grado di lavorare. Anche perché tutte queste “uscite di sicurezza”, contingenti o strutturali che siano, entrerebbero in contrasto con due condizioni: una di ordine economico, dal momento che le finanze pubbliche non sarebbero più in grado di sopportare i maggiori oneri derivanti dal prendersi in carico – nella prospettiva di una crescente attesa di vita – persone tuttora pienamente in grado di lavorare.

L’altra soluzione è ancora in fieri, ma i suoi effetti saranno dirompenti. Il dibattito, che periodicamente riemerge come un fiume carsico, sul “contributo di solidarietà” sulle pensioni retributive mediante il loro ricalcolo col metodo contributivo, non riguarda solo esigenze di “fare cassa”, ma denuncia i prodromi di un conflitto intergenerazionale, in quanto le nuove generazioni non sono più disponibili a sobbarcarsi – in conseguenza del sistema di finanziamento a ripartizione (le pensioni in vigore sono “pagate” attraverso i contributi riscossi, in contemporaneità, dagli attivi) – oneri consistenti sui loro magri redditi per sostenere trattamenti – erogati agli attuali pensionati – che loro, al momento della quiescenza, non riusciranno neppure a immaginare. Se così è non sarà neppure facile consentire una nuova stagione di prepensionamenti, che, agli occhi delle giovani generazioni, assumeranno un preciso significato: i “soliti noti” vanno in quiescenza a un’età fortemente anticipata rispetto a quella in sorte alle generazioni future e con trattamenti più che dignitosi.

Certo, potrebbe essere convincente la “dottrina Madia”: “Mando in pensione gli anziani per fare posto ai giovani”. Una linea, tuttavia, che può dare qualche risultato nel pubblico impiego, ma ben pochi nei settori privati. Diciamoci la verità: sulle pensioni è in vista una battaglia tra le generazioni che si combatterà sulla linea Maginot dei cosiddetti diritti acquisiti. Un fronte destinato prima o poi a cadere.