Ci sono voluti vent’anni per definire una disciplina previdenziale a tutela dei lavoratori adibiti a mansioni usuranti. Eppure, come vedremo, la cosa non funziona. Facciamo prima di tutto un po’ di storia su di un problema così riassumibile: come riconoscere requisiti più favorevoli, per il conseguimento della pensione, a quei lavoratori adibiti a mansioni di particolare disagio, consentendo agli interessati di anticipare, in modo ragionevolmente congruo, i limiti della quiescenza? Il problema si pose fin da quando, a partire dal 1992 (riforma Amato), il legislatore diede inizio a un graduale innalzamento dell’età pensionabile.
In verità, già prima dell’avvio delle riforme, vi erano categorie le quali, per le caratteristiche del lavoro svolto, avevano dei trattamenti pensionistici più favorevoli, che nella legge Amato (dlgs n.503/1992) venivano salvaguardati con la conferma di limiti di età pensionabile più ridotti (rispetto a quelli canonici di vecchiaia: 65 anni per gli uomini e 60 per le donne): gli appartenenti alle Forze Armate e di Polizia, i Vigili del Fuoco, gli iscritti al Fondo Volo, il personale viaggiante Fs e autoferrotranvieri, i lavoratori dello spettacolo, gli sportivi e gli allenatori professionisti. Si trattava, però, di norme che prendevano a riferimento l’età di vecchiaia, un istituto che interessava ben poco i lavoratori sindacalizzati delle grandi imprese, attenti piuttosto alle regole riguardanti il pensionamento di anzianità, che, per le generazioni babyboomers e dell’Italia industriale, in procinto di andare in pensione, rappresentava la via d’uscita tipica, essendo questi soggetti entrati molto giovani nel mercato del lavoro e usufruendo, in generale, di un’anzianità di servizio stabile e continuativa per tutto l’arco dei 35 anni richiesti quale requisito contributivo.
Così, quando con la riforma Dini del 1995 venne introdotto pure un requisito anagrafico in graduale crescita per poter avvalersi del pensionamento anticipato, il problema dello “sconto” per chi era considerato lavoratore usurato venne affrontato con riferimento alle regole man mano vigenti per il trattamento di anzianità. La relativa tutela prevista si applicava tanto ai dipendenti, privati e pubblici, quanto agli autonomi e consisteva nell’anticipo dell’età pensionabile in ragione di un anno ogni dieci di occupazione in attività usuranti fino a un massimo di 24 mesi. Per le pensioni liquidate solo col metodo contributivo, i vantaggi previsti erano ancora maggiori: il lavoratore poteva scegliere l’applicazione del coefficiente di trasformazione corrispondente all’età anagrafica all’atto del pensionamento, aumentato di un anno ogni sei di lavoro usurante; oppure poteva utilizzare tale periodo per l’anticipazione dell’età pensionabile fino al massimo di un anno rispetto al normale accesso.
Nel caso di lavori particolarmente usuranti (già individuati dal dlgs n. 374/1993 nel lavoro notturno continuativo, alle linee di montaggio, con ritmi vincolati, in cave, galleria, serra, spazi ristretti, ecc.) erano ridotti fino a un anno anche i requisiti di età anagrafica della pensione di anzianità. Ma, come dice il proverbio, il demonio insegna a far le pentole ma non i coperchi. Queste norme, come altre precedenti o intervenute successivamente, rimasero sempre inapplicate.
La spiegazione di ciò va cercata nelle modalità di copertura (indicate dalla normativa) consistenti nell’individuazione di un’aliquota contributiva aggiuntiva, definita secondo criteri attuariali e raccordati all’anticipo di età pensionabile. Si poneva, pertanto, un problema di maggior costo del lavoro, che le parti sociali hanno sempre preferito evitare in occasione dei rinnovi contrattuali a cui la definizione della materia era stata rinviata. Lungo tutta questa fase l’unico provvedimento di un certo rilievo riguardò talune situazioni contraddistinte da particolari condizioni di disagio, per tutelare le quali intervenne – una tantum e nei limiti di uno stanziamento di 250 miliardi di vecchie lire – la Finanziaria del 2001, permettendo a oltre 6mila lavoratori, adibiti a mansioni particolarmente usuranti, di avvalersi degli sconti previsti.
La vicenda si sbloccò con la legge delega n.247/2007, grazie all’impegno dell’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano; ma il decreto legislativo attuativo non riuscì a ottenere il parere di entrambe le Commissioni parlamentari competenti e fu travolto dalla fine anticipata della XV Legislatura. In quella successiva il governo di centrodestra inserì nel cosiddetto Collegato lavoro (AC 1441 del 2008) una norma che riapriva i termini della delega scaduta, ma il provvedimento incappò in una serie di disavventure che resero necessarie ben sette letture tra Camera e Senato e un periodo di 27 mesi per l’approvazione (con legge n.183/2010).
Alla fine, venne varato anche il decreto legislativo attuativo (con il n. 67 del 2011), sostanzialmente identico a quello elaborato nella primavera del 2008. La norma, inoltre, disponeva che, nella specificazione dei criteri per la concessione dei benefici pensionistici in questione, dovesse essere assicurata la coerenza con il limite massimo delle risorse finanziarie dello specifico Fondo, la cui dotazione finanziaria era pari a 83 milioni di euro per l’anno 2009, 200 milioni di euro per l’anno 2010, 312 milioni di euro per l’anno 2011, 350 milioni di euro per l’anno 2012, 383 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013.
La legge – è opportuno ricordare – aveva individuato quattro categorie di lavoratori dipendenti: a) lavoratori che svolgono le attività particolarmente usuranti previste dal dm 19 maggio 1999 (ovvero le tipologie già individuate in precedenza e che esaurivano la platea dei possibili aventi diritto; b) lavoratori notturni come definiti dall’articolo 1, comma 2, lettera e) del dlgs n. 66/2003 (riforma orario di lavoro); c) lavoratori addetti alla catena di montaggio; d) conducenti di mezzi pubblici pesanti per trasporto di persone.
Tutto bene allora, dopo tanto lavorio? Non proprio, ed è questa la ragione per la quale abbiamo voluto raccontare una storia di ordinaria previdenza all’italiana. Infatti, “il cavallo non beve”. Da anni le risorse stanziate – già 1,4 miliardi – finiscono in economia dal momento che non vengono erogati trattamenti a tutela di lavoratori cosiddetti usurati. Perché ciò accade? Una spiegazione può essere trovata nell’ampia rivisitazione della materia attuata dalla riforma Fornero (legge n.214 del 2011).
Tale legge ha attenuato i benefici previsti, stabilendo che, dal 2012, i lavoratori usurati (che in precedenza potevano usufruire di uno “sconto” sull’età pensionabile fino a tre anni) potessero andare in quiescenza con una quota (anzianità + età anagrafica) pari a 96 (con età non inferiore a 60 anni), mentre dal 2013 la quota è salita a 97 (con un’età minima non inferiore a 61 anni). È rimasta, inoltre, confermata la cosiddetta finestra mobile per cui l’erogazione del trattamento pensionistico slitta di ulteriori 12 mesi. In sostanza, un meccanismo che – per le stesse caratteristiche esistenziali e professionali dei soggetti interessati – poggiava essenzialmente sul pensionamento di anzianità (l’anticipo prendeva a riferimento i requisiti necessari per accedere a tale tipologia) è crollato insieme al superamento dell’istituto. Sarà bene allora riconsiderare la materia nel suo insieme per non continuare a impiegare risorse in un “fantasma pensionistico”. Tuttavia, anche le norme contenenti requisiti più severi di cui alla legge n. 214/2011 non giustificano uno “zero assoluto” – alla voce lavori usuranti – che dura da troppo tempo.