La Consulta ha dichiarato inammissibile il quesito referendario – promosso dalla Lega – abrogativo della riforma delle pensioni del ministro Elsa Fornero. È una decisione coerente con la giurisprudenza consolidata della Corte e rispettosa di quanto disposto dall’articolo 75 della Carta. Tanto più che la riforma previdenziale del 2011 era parte integrante e fondamentale (all’articolo 24) del decreto Salva-Italia: un’operazione finanziaria di ampia portata, grazie alla quale il Governo Monti scongiurò la bancarotta del Paese. Quella del quesito leghista è stata, dunque, “una morte annunciata”. È Matteo Salvini il “ladro di democrazia”, perché si è servito del più importante istituto di democrazia diretta per alimentare le tensioni demagogiche e populiste che avvelenano da troppo tempo i pozzi del vivere civile, al solo scopo di procurarsi qualche voto in più, senza badare agli effetti nefasti, di lungo periodo, che un’eventuale abrogazione delle norme del 2011 avrebbe determinato.
Certo, se il bilancio dello Stato se lo potesse permettere, della riforma Fornero andranno corrette alcune asprezze. Guai, però, a vagheggiare – è questo l’obiettivo di chi vorrebbe più flessibilità per quanto riguarda l’età della quiescenza – del ripristino (i tentativi si sono visti nella Legge di stabilità) del pensionamento di anzianità (di cui le norme del 2011 hanno disposto il superamento) che ha rappresentato, per decenni, il principale fattore di insostenibilità e di instabilità del sistema. Anche la questione degli “esodati” – che suscitò tanto clamore (in grande misura strumentale ed esagerato nei numeri), nella trascorsa legislatura – ha trovato soluzione mediante la bellezza di sei sanatorie, l’ultima delle quali è stata possibile proprio in conseguenza dei risparmi derivanti da talune disposte in precedenza.
Il Paese non può tornare alla situazione pre-riforma. Ancora nel 2010, l’età media di coloro che percepirono il trattamento di anzianità era pari a 58,3 anni se dipendenti, a 59,1 anni se autonomi. È doveroso, invece, accettare che – in conseguenza dei trend demografici presenti e attesi – occorrerà lavorare più a lungo e investire, quindi, in politiche a favore dell’invecchiamento attivo, piuttosto che mandare in pensione persone ancora in grado di svolgere un’attività. Ma questi, in Italia, sono soltanto buoni propositi. Basti pensare a quanto è accaduto a ridosso della sentenza della Consulta.
Non è certamente un caso che i tg abbiano dato grande spazio al turpiloquio di Matteo Salvini, mentre, per trovare qualcuno che parlasse a difesa della legge del 2011, sono stati costretti a importunare Elsa Fornero. In generale, la valorosa classe politica che ci rappresenta ha scelto la linea di un assordante silenzio, lasciando immaginare, in fondo, un po’ di delusione per la bocciatura del quesito. Pochi giorni dopo, addirittura, “dagli atri muscosi e dai fori cadenti” in cui era stato relegato nella gestione del Jobs Act, è ricomparso il ministro Giuliano Poletti pronto a sostenere che il sistema pensionistico ha bisogno di flessibilità, in mancanza della quale gravi saranno (sic!) le conseguenze sociali della riforma Fornero.
A parte che sono stati ripescati, chissà dove, 46mila nuovi esodati in attesa di tutela (ma il Senato non aveva votato un odg con il quale si invitava il Governo a chiudere questa partita e a risolvere altrimenti il problema?); a prescindere dal fatto che, nella Legge di stabilità, fino a tutto il 2017, si è già provveduto al ripristino del pensionamento di anzianità (abrogando quel simulacro di penalizzazione economica che era previsto) è bene sapere se il governo ha l’intenzione di risolvere taluni problemi del mercato del lavoro dando corso a un’importante iniziativa di prepensionamenti e pretendere che lo dica espressamente.
In sostanza, resta radicata l’idea che a una certa età, se si perde il lavoro, l’alternativa rimanga soltanto quella del pensionamento. Il ministro Poletti ha “richiamato in servizio” talune proposte già impostate dal suo predecessore Enrico Giovannini: la staffetta anziano/giovane con totale copertura figurativa dei contributi a favore del primo, affinché non fosse penalizzato l’importo della pensione; l’idea dell’acconto – come prestito restituibile a rate – sulla pensione spettante, in caso di perdita del lavoro in prossimità della maturazione dei requisiti.
La prima soluzione non avrà seguito a causa dei suoi costi; la seconda, invece, è quella più “approfondita” e quindi più probabile. L’Inps ne ha stimato anche l’onere in circa 400 milioni l’anno che potrebbero essere ricavanti da un pesante giro di vite (grazie al ricalcolo col metodo contributivo) sulle pensioni più elevate. Tuttavia, per avere consistenza, il taglio dovrebbe coinvolgere non solo le “pensioni d’oro”, ma anche quelle di “bronzo”.
Poi, sullo sfondo c’è sempre il big bang: come studiare una soluzione di carattere strutturale tale da consentire quella flessibilità sull’età pensionabile che viene sollecitata da tutti i gruppi in Parlamento. Il progetto non ha avuto finora – e per fortuna – seguito non solo per la mole di risorse che sarebbero occorse, ma anche perché rimane politicamente rischioso manomettere gravemente la riforma Fornero a cui il Paese deve tanto del suo recupero di credibilità sui mercati internazionali. Una riforma che sta bene com’è. Il resto è noia.