Nei commenti, spesso critici, rivolti allo schema di decreto legislativo in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (con annessa disciplina dei licenziamenti ) non si è dedicata, ad avviso di chi scrive, la dovuta attenzione a taluni aspetti che riaprono delicate questioni di principio. Partiamo dal campo di applicazione (articolo 1) del nuovo regime di tutela (in caso di licenziamento illegittimo): esso riguarda “i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Il fatto che siano esclusi i dirigenti sta a provare la mancata estensione del provvedimento ai pubblici dipendenti, perché se così fosse, i lavoratori con qualifica dirigenziale sarebbero stati inclusi com’è normale nella Pubblica amministrazione, diversamente dal settore privato, nel quale, per i dirigenti, è ancora in vigore il recesso ad nutum, appena corretto e temperato da procedure di conciliazione e di arbitrato, previste dai contratti.



Dall’esclusione deriva immediatamente un problema: ai dirigenti neoassunti non si applicano più neppure le tutele contro il licenziamento nullo, inefficace o discriminatorio di cui all’articolo 2. Quest’ultima forma di tutela era stata estesa dalla legge n.92/2012 (la riforma Fornero) a tutti i lavoratori, inclusi gli stessi dirigenti. Non si comprendono le ragioni di un arretramento così vistoso, dal momento che ai “vecchi assunti” continueranno ad applicarsi le norme di salvaguardia previgenti.



Suscita, poi, più di un ragionevole dubbio quanto previsto nel secondo comma dell’articolo 9 relativo alle cosiddette organizzazioni di tendenza (“i datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”) alle quali si applicherà la nuova disciplina. La norma sostituisce quanto stabilito dall’articolo 4 della legge n.108/1990 (che prevedeva appunto la non applicazione delle tutele contro il licenziamento a favore dei dipendenti delle suddette organizzazioni), al pari di quanto sancito dall’articolo 20 della legge n.416/1981 che accumunava alle organizzazioni di tendenza i giornali quotidiani e i periodici che risultavano, attraverso esplicita menzione riportata nella testata, organi di partiti, di sindacati o di enti o comunità religiose.



Queste disposizioni legislative si erano limitate a codificare quanto sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza: dato il carattere ideologico dell’organizzazione, il singolo non svolge un’attività in attuazione di un rapporto obbligatorio, ma in adesione all’ideologia dell’organizzazione stessa. Se si ammettesse la tutela dell’ideologia del lavoratore si negherebbe – afferma la migliore dottrina – la protezione di quella dell’organizzazione, costretta a mantenere un rapporto con un soggetto “dissidente”.

In sostanza, la “tendenza” entra in qualche modo nella causa del contratto di lavoro, cosicché la collaborazione del lavoratore è conforme agli impegni contrattuali se coincide con le finalità ideologiche perseguite dal datore di lavoro. Ne consegue che il mutamento di opinione del lavoratore, pienamente libero e tutelabile nell’ordinamento generale, si trasforma, nell’organizzazione di tendenza, in un inadempimento delle obbligazioni assunte con il contratto.

Ecco perché è soltanto una concessione alla demagogia estendere la tutela contro il licenziamento discriminatorio ai dipendenti delle “organizzazioni di tendenza”: la concreta applicazione di una norma siffatta produrrebbe dei veri e propri “mostri”. Come abbiamo già avuto occasione di ricordare, le parrocchie dovranno tenersi un sagrestano convertito all’Islam; una scuola cattolica dovrà accettare che un’insegnante divenga accesa abortista, mentre il Pd non potrà risolvere il rapporto di lavoro con un dipendente che si trasforma in un fervente berlusconiano. Questi “dissenzienti” potranno essere licenziati solo se assunti prima dell’entrata in vigore della nuova legge.

Nel testo diramato dal governo la vigilia di Natale, vi sono poi altre stranezze. Per esempio, non è prevista – come è sempre avvenuto in considerazione del carattere fiduciario del rapporto -l’esclusione del lavoro domestico dall’applicazione delle norme sul licenziamento.  L’articolo 2 si riferisce, infatti, al datore di lavoro, “imprenditore o non imprenditore”. Significa che una famiglia potrà essere portata in giudizio se dà i classici otto giorni a una colf? Infine, anche osservando la nuova disciplina dall’angolo di visuale delle norme più “strane” emerge, in ogni caso, la contraddizione profonda del nuovo dualismo che verrà a crearsi tra vecchi e nuovi assunti.