Povero Poletti!  Per aver  usato in modo improprio una parola gli sono saltati addosso  come cani famelici, in evidente malafede. Il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, gli ha consigliato “un ripassino della Costituzione”, incespicando, poi, nella rappresentazione ideologica di un “lavoro già troppo sfruttato e senza regole e precario e subordinato alla discrezionalità”. Dal canto suo, Susanna Camusso è andata a scomodare i cartoni animati (quelli giapponesi, per giunta) paragonando il ministro del Lavoro a un “Ufo Robot”. 

Che cos’ha detto di tanto grave Giuliano Poletti? Facciamo rispondere a lui: “Se cambia il modo di lavorare può cambiare anche il modo di definire la retribuzione: mi sembra una cosa ovvia, non credo di aver detto cose da extraterrestre”. Avendo, però, usato la parola “orario” lo hanno accusato di voler destrutturare completamente il lavoro, quando, in realtà, il ministro  intendeva riferirsi al tempo che il lavoratore mette a disposizione del datore quale corrispettivo del salario. 

Certo, a consultare un qualunque manuale giuridico si trovano definizioni distinte del lavoro subordinato e di quello autonomo: l’oggetto dell’obbligazione nella prima fattispecie (nel diritto romano, locatio operarum)  è costituito dalle energie lavorative del dipendente, che si impegna a un generico  ”facere” sotto la direzione e l’organizzazione del datore,  mentre nel rapporto di lavoro autonomo (locatio operis) l’oggetto è rappresentato dal prodotto di un’attività organizzata, in sostanza da un risultato che il lavoratore si impegna a fornire al committente.  Che poi, per farlo, si avvalga soltanto di un’attività prestata personalmente o con l’aiuto di collaboratori, la questione non cambia. È il lavoratore autonomo che si assume il rischio, mentre ciò non accade nel caso del lavoro dipendente, che rimane estraneo al risultato produttivo, in quanto esso dipende dall’organizzazione dei mezzi produttivi e del lavoro predisposta dal datore. 

Fino a qui le idee generali, ma la realtà è un’altra, non solo nella pratica (ve lo immaginate un lavoratore che, nel “tempo” non realizza pure un “risultato”?), ma anche per la dottrina e la giurisprudenza. Nella più recente contrattazione “articolata” vanno emergendo, nell’ambito del lavoro subordinato, forme di retribuzione incentivanti, legate a parametri come la qualità del prodotto, la produttività del lavoro e l’andamento economico dell’impresa, che sono definite  “elementi variabili”, con funzione incentivante e carattere di aleatorietà. Tali premi possono essere diretti all’intera collettività dei lavoratori o a gruppi di essi.

Secondo il Centro Studi di Confindustria, il 60,1% dei dipendenti delle imprese associate è coperto da un contratto di secondo livello che prevede l’erogazione di premi variabili collettivi.  Ma anche senza avere la pretesa di ragionare del presente e del futuro (il disegno di legge di stabilità intende promuovere, con incentivi fiscali e con criteri di accesso più generosi,  la contrattazione di quote retributive incentivanti), sono sempre esistite – e hanno avuto un ruolo importante nel determinare l’entità della retribuzione percepita – voci di salario o di stipendio collegate al risultato. Basti pensare  alle cosiddette provvigioni (corrisposte ai lavoratori – non solo se autonomi – in percentuale rispetto al ricavato degli affari conclusi a buon fine) o alla cosiddetta partecipazione agli utili (che non modifica per nulla la causa del contratto di lavoro subordinato). 

A voler ragionare, però, della più classica retribuzione di  risultato si arriva nel cuore della società industriale (quella che viene rimpianta dai “nostalgici” dei giorni nostri) e ai sistemi di cottimo:  una tecnica di commisurazione della retribuzione alla quantità di lavoro prestato in una data unità di tempo. L’articolo 2100 del codice civile (del 1942) prevede, infatti, che il prestatore di lavoro sia retribuito a cottimo quando, in conseguenza dell’organizzazione del lavoro, sia vincolato all’osservanza di un determinato ritmo produttivo o quando la valutazione della sua prestazione sia fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione. Certo, anche quando questo modello di organizzazione del lavoro andava per la maggiore vi è sempre stata una combinazione fra la quota di retribuzione “a tempo” e un’integrazione ulteriore detta “utile di cottimo”. Il cottimo puro (un tanto al pezzo) è operante nel solo lavoro a domicilio. 

Nelle parole del titolare del Lavoro non vi era, dunque, alcuna rivoluzione copernicana, ma il riferimento a una necessaria modernizzazione di tecniche retributive da sempre utilizzate nell’ambito del rapporto di lavoro.