È sempre difficile dare giudizi sul comportamento degli altri, soprattutto quando appartengono a una generazione diversa dalla propria. Inoltre, la vicenda presenta aspetti abbastanza prevedibili che non vengono sottolineati con particolare preoccupazione da parte dei protagonisti: siano essi i responsabili dello stabilimento o i dirigenti dei sindacati. Il caso ci porta a Melfi nel cuore profondo della Basilicata, un tempo terra d’emigrazione o di emarginazione dei giovani che non trovavano il coraggio di andarsene (queste storie furono raccontate anche in celebri film d’epoca). A Melfi  è operante, da decenni, uno stabilimento della Fca (ex Fiat) che, a suo tempo, sorse con criteri innovativi  e che, sia pure tra problemi e difficoltà, si è posto all’avanguardia, concretamente, di un “nuovo modo di fare l’automobile” e di investire nel Mezzogiorno.  



Oggi Melfi è l’emblema della ri-partenza dell’industria dell’auto e della svolta, anche in Italia, del Lingotto (i cui punti di forza, ormai, si trovano tutti nelle regioni del Sud). Sono in corso 300 assunzioni che saranno seguite da altre 700, in un contesto in cui tira aria nuova in tutto il gruppo (a Pomigliano è stato chiesto di effettuare lavoro straordinario per tre sabati). Dove sta allora il problema? Nel primo blocco di assunzioni a Melfi, una ventina di giovani ha  interrotto il periodo di prova, ha rinunciato all’impiego, ritenendo inadeguato il posto di lavoro offerto. 



A  questa fascia di assunti venivano richiesti, oltre a un’età inferiore a 30 anni, un diploma di scuola media superiore con un buon punteggio o addirittura una laurea, in quanto veniva prospettata loro una carriera di leader dei gruppi di lavorazione. In tale situazione sarebbe facile commentare i fatti  in modo strumentale e un po’ disonesto. Sia facendo notare che vengono rifiutati posti di lavoro pur in presenza di alti tassi di disoccupazione giovanile, specie nel Mezzogiorno, accompagnando il tutto con qualche litania sui “bamboccioni”, sia lamentando l’amara sorte di poveri giovani, magari laureati in ingegneria, costretti a fare gli operai, per di più adibiti alla catena di montaggio, senza premurarsi di aggiungere che essa non ha più nulla da spartire con quella in funzione a Mirafiori, nel “bel tempo che fu”. 



Immaginiamo pure che qualche “anima bella” prenda spunto da questi eventi per evocare il dramma della “disoccupazione intellettuale”.  Ma si può fare l’operaio oggi, in posti di lavoro che richiedono un ricco know-how tecnologico e informatico, senza possedere almeno un diploma adeguato? Negli altri Paesi europei, dove è più elevato il tasso di scolarizzazione che da noi, non sono scomparsi gli operai e i tecnici. È la loro elevata preparazione di base che, in qualche modo, concorre ad ”ammortizzare” gli investimenti delle imprese e ad accrescere la produttività del lavoro, attraverso un più intenso “capitale sociale”. Da noi è ancora presente una “cortina”, prima di tutto culturale, che separa la scuola dal lavoro (solo il 5% dei giovani compie esperienze lavorative durante il percorso formativo) e il lavoro manuale da quello intellettuale. 

Al contrario, il lavoro dovrebbe diventare, come ha scritto Giuseppe Bertagna, «un mezzo per la formazione che, a sua volta è un fine per il lavoro».  Si direbbe anzi, che negli ultimi decenni vi sia stata una vera e propria regressione: basti pensare che, all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, venne introdotto, nella contrattazione collettiva, il cosiddetto inquadramento unico che interconnetteva tra loro, all’interno dei medesimi livelli retributivi, qualifiche tradizionalmente operaie e altre tecnico-impiegatizie, ritenute di analogo valore professionale. 

Tornando a Melfi, quello stabilimento ha conosciuto, anche in altre epoche, problemi con le proprie maestranze. Ci fu un tempo in cui, alcune centinaia di operai, formati di tutto punto, se ne andarono perché assunti dalle pubbliche amministrazioni o dalle Poste. Poi, rimane, non risolto, l’aspetto dell’ampiezza del bacino da cui lo stabilimento attrae manodopera. Ciò comporta la necessità di aggiungere all’orario di lavoro il tempo degli spostamenti nel territorio, resi più gravosi dal sistema dei trasporti e dalle turnazioni. 

Anche su tali questioni, tuttavia, si fanno troppe concessioni alla retorica. Non è meno complicato muoversi con i mezzi pubblici in una città come Roma, dove, peraltro, tutte le mattine arrivano, da località limitrofe spesso distanti, centinaia di migliaia di persone per recarsi al lavoro (e rincasare la sera). 

Ci auguriamo, allora, che i casi di “lavoro rifiutato” a Melfi siano davvero riconducibili a situazioni di carattere fisiologico. I giovani hanno sicuramente diritto di coltivare le proprie aspettative, per conseguire le quali hanno studiato. Ma è altrettanto importante, per loro, entrare al più presto nel mercato del lavoro, per “prendere confidenza” con un modo di vivere diverso, inserito in un’organizzazione produttiva, in un contesto di relazioni sociali e di disciplina personale. Aver lavorato da operaio alla Fca “fa curriculum” almeno quanto aver seguito, da inoccupati, un corso o un master di specializzazione che l’Università ha organizzato, magari, al solo scopo di assegnare una cattedra. 

I nostri giovani terminano il ciclo formativo più tardi dei loro colleghi europei, accedono al mercato del lavoro anni dopo, senza mai essere entrati in contatto, in precedenza, con questo mondo. La regola deve essere uscire dall’inerzia, non aspettarsi interventi salvifici dall’alto (la raccomandazione), contare sulle proprie forze e cominciare ad agire. Soprattutto convincendosi di un precetto etico, prima che economico e sociale: ogni lavoro onesto è dignitoso. E merita di essere svolto.