Supponiamo che un medico svolga un accurato check-up di una persona che non gode buona salute e che, al termine, si rivolga ai parenti in ambasce comunicando loro che il paziente soffre per un’unghia incarnita, per un’importante ipertrofia della prostata, per una calcolosi alla cistifellea, per il fegato ingrossato, per una bradicardia da tenere sotto controllo, per una bronchite ormai divenuta cronica e, come ex fumatore, pur un enfisema polmonare. Poi, tanto per essere preciso, il medico aggiunge un’altra serie di quei fastidiosi malanni che consentono di campare – magari male – fino a cent’anni. Terminata l’esposizione della diagnosi, il paziente se ne va, accompagnato dai parenti più stretti che gli ripetono la ramanzina del medico che lo ha dimesso invitandolo a intraprendere una vita più sana. Il fatto è che analisi più approfondite, meno speculative e più decisamente rivolte all’effettiva sostanza dei problemi, avrebbero messo in luce che il paziente soffre di un tumore, difficilmente operabile, e in uno stadio tanto avanzato da renderne problematica la sopravvivenza.
A che pro questa metafora? L’idea ci è venuta assistendo (casualmente) all’ultima puntata di Presadiretta sul terzo canale della Rai, significativamente intitolata “Il buco delle pensioni”. Di solito queste trasmissioni non le guardiamo per principio, perché non ci siamo mai rassegnati a ritenere che il sacrosanto diritto della libertà di espressione possa spingersi fino al punto di distorcere la realtà e di incattivirsi per dimostrare che siamo sull’orlo del baratro. In sostanza, da qualche tempo a questa parte i media sembrano convinti che la loro mission debba necessariamente essere rivolta a sfasciare il Paese. A tutti i costi, anche raccontando all’opinione pubblica delle solenni bugie in un contesto di mezze verità.
Ovviamente, il clima disfattista è contagioso: un noto ex sindacalista (al tempo dell’intervista ancora in servizio permanente effettivo) si è lanciato in un’affermazione osé e non dimostrata, accusando le amministrazioni dello Stato di evadere i contributi e attribuendo a ciò parte del “buco” del bilancio Inps, come se non sapesse che i crediti (lo Stato al massimo non paga in termini di cassa, ma non fa lavorare in nero i propri dipendenti) sono indicati tra le poste attive. In realtà, il fatto è che l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil aumenta perché il loro rapporto è calcolato da una frazione: al numeratore sta la prima, al denominatore il secondo. Se la prima – com’è normale – cresce nonostante i tagli e il secondo crolla, il rapporto si impenna (come è avvenuto negli anni della crisi).
Le difficoltà dell’economia, poi, non si sono limitate soltanto a produrre guasti sociali che pure sono stati pesanti. La crisi ha modificato profondamente la struttura del bilancio dell’Istituto azzerando quei colossali avanzi derivanti dalla gestione degli ammortizzatori sociali, per i quali – in condizioni di normalità – il prelievo contributivo risultava superiore alla spesa effettiva per alcuni miliardi (includendo nel conteggio le altre prestazioni temporanee). Così l’Inps, appesantito dai disavanzi ereditati dall’incorporazione dell’Inpdap, ipotizzava per il 2014 un disavanzo d’esercizio di circa 8 miliardi. Questi trend strutturali rappresentano il tumore di cui alla nostra metafora.
Si è fatto un gran parlare, anche nella trasmissione televisiva citata, degli effetti negativi dell’incorporazione dell’Inpdap nell’Inps. Ma anche in questo caso c’è una spiegazione. La storia merita di essere raccontata: una norma maligna del 2007 (legge finanziaria 2008) ha trasformato in anticipazioni di Tesoreria (e quindi in debiti dell’ente verso lo Stato) gli iniziali trasferimenti (e quindi crediti dell’Inpdap verso lo Stato) stanziati dalla legge Dini del 1995, in misura di 14mila miliardi di vecchie lire all’anno, a copertura dello stock delle pensioni degli statali (fino a quel momento liquidate direttamente dalle amministrazioni), quando la loro Cassa venne istituita, a partire dal 1996, e cominciò a incassare i contributi. Ovviamente, tale operazione di carattere meramente contabile ha mandato in tilt il bilancio dell’Inpdap che ha portato in dote la sua “sofferenza” al “super-Inps” (ma la situazione patrimoniale è stata riportata in attivo grazie al soccorso della Legge di stabilità 2014).
Questa vicenda, in qualche modo, è collegata all’operazione che il neopresidente Tito Boeri aveva proposto da studioso: quella di ricalcolare con il metodo contributivo le pensioni più elevate liquidate con il retributivo, imponendo una penalizzazione sull’eventuale differenziale. La proposta consentirebbe, a suo dire, alcuni miliardi di risparmio. Si tratta, certamente, di un progetto interessante, ma impraticabile per i pensionati delle amministrazioni statali (quelli che di solito annoverano i trattamenti più elevati), perché i dati sulla loro contribuzione versata ci sono soltanto dal 1996.
Per non farsi mancare nulla, Presadiretta ha messo sotto accusa la cattiva gestione del patrimonio immobiliare (anche in questo caso si è trattato in prevalenza di strutture ereditate dall’Inpdap: colonie, caso di riposo, ecc.). Vedere immobili in rovina non è un bello spettacolo e, certamente, una gestione migliore porterebbe benefici al bilancio (anche se di colonie in disuso e difficilmente riutilizzabili è pieno il Paese). Ma per l’equilibrio di un sistema pensionistico ci vuole ben altro: occorre un’economia sana, un’occupazione in crescita, delle regole sostenibili. Che senso ha, allora, prendere taluni casi di lavoratori precari, accompagnarli da un ricercatore universitario che – come un indovino che, al posto della palla di vetro, maneggia un Pc – predice in pochi minuti l’ammontare futuro dell’assegno pensionistico prendendo a riferimento la condizione lavorativa e il reddito di oggi come se fossero immodificabili? Siamo proprio sicuri che così si faccia buona informazione?