È partita l’operazione Quantitative easing. La Bce mette in circolazione risorse liquide che, attraverso il canale delle Banche centrali, consentiranno di svuotare di titoli di Stato  i portafogli degli istituti bancari e di avere, così, maggiori disponibilità  per il credito alle imprese e alle famiglie, a fronte di tassi di interesse molto bassi grazie alle precedenti misure della stessa Bce. Circolerà più moneta e ciò dovrebbe favorire i consumi. 



Da qualche mese è in ripresa il mercato immobiliare. Tendono poi a consolidarsi altri segnali di carattere strutturale: l’euro ormai si avvia a un cambio alla pari con il dollaro e questo dato favorisce le esportazioni, il settore dell’economia che ha consentito all’apparato produttivo di “tirare il fiato” anche negli anni più bui della crisi; il prezzo del petrolio rimane basso, mentre, sempre restando sul piano del fabbisogno energetico, tende a normalizzarsi (o quanto meno a non aggravarsi) la crisi russo-ucraina.



Una recentissima nota dell’autorevole Centro studi della Confindustria (Csc) spezza una lancia a favore della propensione a investire e a innovare delle imprese manifatturiere in Italia. Per quanto riguarda il primo aspetto il livello è tra i più alti al mondo: il 22,8% nel 2013 contro il 21,1% giapponese, il 19,2% statunitense, il 13,2% tedesco, il 12,5% francese. Siamo secondi solo alla Corea del Sud (30,6%).  Quanto alla capacità di innovazione, secondo il Csc, il 46% delle imprese manifatturiere   (gli ultimi dati sono del 2012) ha innovato i prodotti o i processi, a fronte del 43% delle francesi e del 39% delle britanniche. Solo la Germania (con il 63%) ha fatto meglio di noi. 



È alta la fiducia sugli effetti per l’occupazione del nuovo contratto a tutele crescenti. La consegna pare essere quella dell’ottimismo: si parte da 250mila assunzioni entro l’anno a stare alle previsioni più prudenti, ma molti centri azzardano cifre ancora migliori. È difficile distinguere quanto di questi possibili esiti sia dovuto alla pratica archiviazione dell’articolo 18 nel caso di nuove assunzioni (inclusi i cambiamenti di posto di lavoro) o alle incentivazioni riconosciute dalla Legge di stabilità per gli assunti nel 2015 (è bene ricordare che i datori riceveranno per un triennio un bonus di 8mila euro l’anno, che, a conti fatti, corrisponderà al pagamento di un anno di retribuzione lorda a carico dello Stato). Di certo, vi è attesa per gli effetti derivanti dalla combinazione delle due misure.  

Senza che nessuno suoni la grancassa, tuttavia, si affaccia un altro problema, per ora dissimulato con ragionamenti e progetti riguardanti il sistema pensionistico e l’esigenza di rendere più flessibile la riforma Monti-Fornero del 2011. Il fatto è che sarà proprio la ripresa economica a imporre al sistema produttivo una sorta di redde rationem con  la questione degli esuberi, finora “gestiti” attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali (di cui, peraltro, è previsto un processo di razionalizzazione). I piani che prevedono nuove assunzioni andranno in parallelo con l’avvio di una fase di licenziamenti collettivi. 

È intenzione del Governo (ma questa esigenza è largamente condivisa da tutte le forze politiche e sociali, a partire dalla Confindustria) caricare il più possibile questi problemi sul sistema pensionistico. I propugnatori della flessibilità, per quanto riguarda il punto cruciale dell’età pensionabile, perseguono in verità un solo scopo: abbassare la soglia minima d’accesso, ripristinando una qualche forma di pensionamento anticipato (già sono riusciti, nella Legge di stabilità, a togliere di mezzo, fino a tutto il 2017, la modesta penalizzazione economica prevista per chi, pur avendo maturato il requisito contributivo, andava in quiescenza prima dei 62 anni). Il ministro Poletti ha rimandato questo progetto alla Legge di stabilità del prossimo anno, nella consapevolezza non solo della sua incidenza sui conti pubblici, ma anche della criticità con cui sarebbe accolta, negli ambienti europei e internazionali, una manomissione della riforma del 2011. 

Non è più il tempo di usare la previdenza per risolvere situazioni contingenti, per quanto esse siano importanti e socialmente delicate. Le pensioni hanno la memoria lunga, per di più proiettata in avanti. È evidente che certi problemi  – che si porranno sul terreno dell’occupazione – non possono essere ignorati.  Sarà molto meglio, però, innovare sul terreno delle politiche attive o, se necessario, mediante l’uso di nuovi ammortizzatori sociali, piuttosto che intasare il sistema previdenziale con un’ulteriore stagione di prepensionamenti. Come si affronterebbe, altrimenti, la bomba dell’invecchiamento, destinata a trasformare, entro poco tempo, la struttura stessa della popolazione? 

In Italia, l’attesa di vita media di una persona di 65 anni, che nel 2015 è pari a 18,6 anni per gli uomini e a 22,2 per le donne, salirà a metà del secolo, rispettivamente a 22 e a 25,3 anni. Ma  ci saranno più over80enni che ragazzi con meno di 14 anni, mentre raddoppierà il rapporto tra gli ultra65enni e la popolazione in età di lavoro.  Saranno proprio le esigenze del mercato del lavoro a richiedere di lavorare più a lungo; e ciò consentirà di rendere più adeguato il livello dei trattamenti.  

Non avrebbe senso mandare in quiescenza, magari con un assegno modesto, persone ancora in grado di lavorare. Perché prepararsi ad avere, a breve distanza di tempo,  dei vecchi poveri, quando potrebbero non esserlo, se avessero posticipato il pensionamento?

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