La Lega di Matteo Salvini si cimenta con una riforma delle pensioni che, a suo avviso, sarebbe “rivoluzionaria”. In effetti, se per rivoluzione si intende far saltare il sistema e condannare gli anziani alla povertà, le proposte del Carroccio – per quanto è dato capire dalla lettura dei quotidiani che ne parlano – sono proprio azzeccate. Al di là degli importi promessi (bisognerebbe spiegare a Salvini e ai suoi economisti che promettere, oggi, una pensione di mille euro ai nuovi assunti significa non tener conto del fatto che, tra 40 anni, quella somma sarebbe irrisoria al valore corrente della moneta), il meccanismo dovrebbe funzionare così: i datori versano una contribuzione fissa per ogni loro dipendente (il quale ha una ritenuta in busta paga del 10%) a prescindere dalla retribuzione percepita; la fascia contributiva serve soltanto a determinare l’ammontare dell’assegno (in scaglioni fissi da 500, 800 e 1.000 euro mensili per 14 mensilità) in relazione all’anzianità di servizio (35 o 40 anni). Il modello (vi sarebbero differenze quantitative per i lavoratori autonomi ma con un meccanismo simile a quello dei dipendenti) dovrebbe valere solo per i nuovi assunti e per quanti, a determinate condizioni, ne facessero opzione. 



E qui si pone il problema più serio, a cui non viene data una risposta. I grandi sistemi pensionistici pubblici – è questa la prima fondamentale nozione da apprendere e tenere a mente – funzionano con il metodo della cosiddetta ripartizione in forza del quale le pensioni vigenti sono finanziate dai contributi versati dai lavoratori attivi in quello stesso periodo, sulla base di un patto fra le generazioni, imposto e garantito dallo Stato. Tale patto promette ai contribuenti di oggi che, domani, divenuti pensionati, ci sarà un’altra generazione di contribuenti che onorerà le promesse ricevute in cambio dell’adempimento ai propri doveri. Se poi le promesse assurgeranno all’Eliseo dei diritti è tutto un altro paio di maniche. 



È bene farlo subito questo ragionamento e mettere immediatamente le carte sul tavolo. Nella cultura statalista dominante è presente una fiducia eccessiva nelle leggi, come se bastassero le norme a produrre le risorse che servono a pagare le pensioni. In realtà, l’equilibrio del patto intergenerazionale sotteso ai grandi sistemi pubblici dipende strettamente da parametri che le leggi non possono determinare, mentre ne sono radicalmente condizionate. Ogni variazione di tali parametri produce degli effetti – più o meno profondi e strutturali – che incidono sulla possibilità di dare per definitivamente acquisiti i diritti previdenziali (di tradurre cioè in prerogative esigibili le promesse). 



Il parametro fondamentale di un modello pensionistico pubblico è dato dal rapporto tra il numero dei lavoratori attivi (i contribuenti) e quello delle pensioni vigenti. Si noti subito – per inciso – la differenza tra pensioni e pensionati: le prime sono poco meno di 23 milioni i secondi 16,5 milioni. Il che significa che alcuni milioni di trattamenti sono redistribuiti sulla medesima platea di utenti: un dato di cui si dovrebbe tener conto quando si ragiona di prestazioni medie considerate troppo modeste. È fin troppo facile comprendere che – ci avvaliamo di un esempio molto elementare – una pensione mensile di 1.000 euro “costa” 100 euro a testa a dieci lavoratori contribuenti. Se, invece, per effetto delle trasformazioni demografiche, dell’invecchiamento della popolazione, del prolungamento dell’attesa di vita e delle modifiche del mercato del lavoro, a ogni lavoratore attivo corrisponde (come accade ora) più o meno un trattamento pensionistico, restano soltanto due alternative: o il singolo contribuente si prende carico dei 1.000 euro mensili oppure la pensione si riduce a un decimo del suo valore. 

Naturalmente, la soluzione adottata è stata sostanzialmente la prima (ci pensa la fiscalità generale a pareggiare i conti). E per di più si è largamente ampliato, grazie all’invecchiamento, il periodo di godimento dell’assegno (con seguito di reversibilità al coniuge vedovo). Oggi i lavoratori dipendenti in attività versano un terzo delle loro retribuzioni agli enti previdenziali per finanziare le pensioni in essere. Immaginiamo, allora, che cosa potrebbe accadere se, aderendo alle elucubrazioni della Lega, i nuovi contribuenti di domani, siano essi datori o lavoratori, riducessero drasticamente quei versamenti che servono – lo ripetiamo – non a finanziare le loro pensioni per quando usciranno dal mercato del lavoro, ma quelle erogate ai pensionati loro contemporanei. 

Quando si pretende di cambiare radicalmente un sistema pensionistico alimentato a ripartizione bisogna trovare chi si fa carico (lo Stato?) dello stock di trattamenti vigenti. Poi, visto che non esistono più regole, ma solo un clima da caccia all’uomo, possiamo aspettarci di tutto. Persino il presidente dell’Inps, Tito Boeri, che non è Matteo Salvini, si è messo in testa di applicare retroattivamente il calcolo contributivo, manomettendo prestazioni a suo tempo liquidate sulla base delle leggi allora vigenti. 

Ma il modello leghista, anche se stesse in piedi (cosa più che dubbia) prefigurerebbe comunque un forte depotenziamento del sistema obbligatorio, che verrebbe ricondotto a un livello di mera sussistenza. Si dovrebbe almeno riaprire il capitolo della previdenza privata a capitalizzazione, spostando su di essa e sul suo sviluppo la funzione di assicurare l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici. Povero Paese. Non resta che dire: “In God we trust”.