Nei dati sull’occupazione nel primo trimestre dell’anno in corso, resi noti dall’Inps, c’è un solo aspetto che si può acquisire con una buona dose di sicurezza: la combinazione “virtuosa” tra l’incentivo disposto dalla legge di stabilità (8.060 euro all’anno per un triennio a favore dei datori per ogni lavoratore assunto a tempo indeterminato nel 2015) e il contratto a tutele crescenti (in vigore dal 7 marzo) sta cambiando la struttura dell’occupazione, dato che crescono i rapporti relativamente più stabili e si riducono, in percentuale e in valore assoluto, i contratti a termine e quelli atipici. Persino il contratto di apprendistato viene “cannibalizzato” in conseguenza del trattamento estremamente più vantaggioso riconosciuto al contratto a tempo indeterminato.
Tutto ciò pone una serie di domande molto pratiche. La prima: a determinare il “balzo in avanti” delle assunzioni a tempo indeterminato ha contribuito maggiormente l’incentivo economico (ovvero la decontribuzione triennale) o quello normativo (le regole meno gravose in materia di recesso)? Il quesito è di quelli che difficilmente potranno avere una risposta, ma non è di “lana caprina”. È sicura l’influenza sinergica dei due incentivi. Ma se le aziende, in prevalenza, fossero state spinte ad assumere o a trasformare dei rapporti di lavoro, perché invogliate da un “bonus” che consente loro di risparmiare un’annualità di retribuzione lorda (intascando 24mila euro) su tre, è evidente che si potrebbe porre un problema non di scarso rilievo, a partire dall’anno prossimo, se il Governo non trovasse il modo di rifinanziare adeguatamente l’operazione. E l’esecutivo ha già fatto capire che non sarà facile riproporre l’intervento nei medesimi termini in vigore quest’anno, in un quadro di finanza pubblica che l’affaire pensioni ha gravemente deteriorato.
Va altresì tenuto presente che le “trasformazioni”, pur migliorando la qualità dell’occupazione, hanno un costo rilevante: per ogni contratto a termine “trasformato” in uno a tutele crescenti le casse dello Stato vedono sfumare gli introiti derivanti dall’aliquota del 34,4%; per ogni rapporto di collaborazione quella del 27,7% (senza tralasciare quella modesta prevista per l’apprendistato). Tanto che il Governo ha dovuto integrare la copertura finanziaria, avvalendosi dello schema di decreto sulle tipologie contrattuali, dove è stata inserita, persino, una malandrina “clausola di salvaguardia” consistente in un contributo aggiuntivo a carico dei datori, se le risorse stanziate si rivelassero insufficienti.
L’altra domanda è ancor più maligna. Si prenda pur atto con favore che nel solo mese di marzo (quando è entrato in vigore il contratto di nuovo conio) vi sono state 115mila assunzioni; che è attivo e in crescita il rapporto tra assunzioni e cessazioni (le prime in crescita le seconde in flessione, anche come valore assoluto, rispetto al terzo trimestre del 2014); che aumentano i contratti a tempo indeterminato e diminuiscono quelli a termine e di apprendistato. Ma, tutto ciò premesso, il numero complessivo degli occupati si incrementa o si riduce? E quello dei disoccupati?
Anche in questo caso non si ha a che fare con un gioco banale di numeri: se un dipendente a termine viene riassunto a tempo indeterminato è sicuramente un bene per lui, per la sua famiglia e per la società. Ma il posto di lavoro resta uno e uno solo.
Nei dati dell’Inps non troviamo la risposta a tale quesito. Fino ad ora, l’Istat – già pochi giorni dopo che il ministero del Lavoro aveva suonato le campane a festa a proposito dei trend occupazionali – non ha esitato a smorzare degli entusiasmi troppo facili. Presto sentiremo, allora, la versione dell’Istituto di statistica, il quale, nel recente Rapporto annuale, ha ipotizzato, tuttavia, un’inversione di tendenza, pur modesto, a partire da quest’anno. Se sono rose fioriranno.