Giugno è arrivato: sarà il mese in cui il quartier generale dell’Inps, trasformato ormai nella succursale romana de LaVoce.info, renderà note – urbi et orbi, poiché la tracotanza non ha limiti – le proposte di riforma del welfare, concepite – con scarsa attenzione ai ruoli istituzionali e ai compiti che ne discendono – dalla mente vulcanica del professor Tito Boeri. Finalmente ci saranno chiariti i criteri, le modalità e le finalità del ricalcolo, secondo le regole del sistema contributivo, delle famigerate pensioni 2retributive”. Dopo che i ministri Poletti e Padoan (Schioppan?) hanno smentito che il Governo abbia intenzione di prendere a calci i diritti acquisiti, sembrerebbe che tale operazione – particolarmente onerosa e complessa sul piano amministrativo – sarà finalizzata a prevedere e ad applicare un meccanismo equo allo scopo di definire un contributo di solidarietà – per sua natura corrispondente a principi di ragionevolezza e di temporaneità – almeno sulle pensioni più elevate. Il che desta qualche motivo di stupore visto che i trattamenti (si vedano il grafico e la tabella a fondo pagina, con i relativi commenti in corsivo tratti da uno studio di Stefano e Fabrizio Patriarca) che maggiormente hanno tratto beneficio dalla “rendita di posizione” del sistema retributivo non sono gli assegni più alti, ma quelli di livello intermedio e, segnatamente, acquisiti mediante il pensionamento anticipato di anzianità (ovvero le prestazioni erogate a persone con un’età inferiore a 60 anni e quindi titolari di un assegno percepito per un periodo più lungo). 



Il fatto è che con il pretesto di restituire flessibilità al pensionamento (è questo il tema cha va per la maggiore nel dibattito sul futuro della previdenza, con la complicità di tutti i gruppi parlamentari ciascuno dei quali ha presentato il suo ddl in proposito) in realtà si finirebbe (usiamo il condizionale come un auspicio) per reintrodurre il pensionamento di anzianità (la peste bubbonica del nostro sistema pensionistico) “ferito a morte” dalla riforma Fornero del 2011. Per rendersene conto è sufficiente considerare il pdl che sta andando per la maggiore, anche per l’autorevolezza di chi lo ha presentato (il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, e il sottosegretario Pier Paolo Baretta). 



L’impianto del provvedimento è il seguente: presi come punto di riferimento i 66 anni del trattamento di vecchiaia con 35 anni di contributi versati o accreditati, l’esercizio del diritto può avvenire all’interno di un range che va da 62 a 70 anni, con una penalizzazione o un incentivo del 2% l’anno a seconda che si anticipi o si ritardi la quiescenza, per un massimo, in ambedue le direzioni, dell’8%. Basta sommare 62 e 35 per rendersi conto che “l’assassino è tornato sul luogo del delitto”. Si arriva, cioè, a quella “quota 97” prevista nella legge che recepì il Protocollo sul welfare del 2007, quando Damiano era titolare del Lavoro. 



(Questi dati evidenziano una situazione di grande iniquità distributiva nella quale lo Stato trasferisce risorse ingenti per sostenere le pensioni più opulente e godute in età anteriori a 60 anni. Si è osservato da alcune parti che le pensioni di anzianità sarebbero state principalmente la “compensazione” al lavoro operaio e precoce. Non è così: nel milione di persone circa (tabella qui sotto) che è andato in pensione di anzianità, tra il 2008 e il 2012 compresi i dipendenti pubblici e gli autonomi, le pensioni inferiori ai 1500 euro mensili,  che comprendono verosimilmente quelle degli operai, sono solo il 18 per cento, ed hanno complessivamente il 10 per cento della spesa pensionistica.

Nostre elaborazioni su dati Inps Inpdap

Lo stupore per queste cifre può ancora lasciare spazio a chi pensa che si possa contribuire a rilanciare l’economia italiana attraverso una politica capace di connettere politiche del welfare e mercato del lavoro, ristrutturando e non tagliando la spesa pubblica. Si può partire aggredendo il nodo del sistema previdenziale, mettendo in campo un’operazione di verità sulle pensioni che scopra i margini per un intervento redistributivo al suo interno e che favorisca l’occupazione, tuteli i più deboli, eliminando iniquità e privilegi: un modo efficace per sostanziare la retorica del “circuito virtuoso tra equità e sviluppo”.

Certo, ora è prevista una penale dell’8% che allora non era contemplata. Ma il vantaggio di andare in pensione prima (avvalendosi in pratica di un trattamento di anzianità) non è affatto compensato da una modesta riduzione dell’assegno. Poi dove sta scritto che la riforma Fornero prevede dei criteri troppo rigidi? L’art. 24 del decreto salva-Italia ha introdotto, invece, un meccanismo “premiale” a favore di quei soggetti che ritardino l’accesso alla pensione rispetto all’età minima vigente e fino al compimento dei 70 anni (a cui si aggiunge l’aggancio automatico all’attesa di vita). Anzi, a chi compie tale scelta viene estesa persino la tutela contro il licenziamento ingiustificato. 

I propugnatori della flessibilità – a partire dal ministro Poletti per arrivare alla Confindustria passando per i sindacati – perseguono un solo obiettivo: abbassare la soglia minima d’accesso, ripristinando una qualche forma di pensionamento anticipato (già sono riusciti, nella Legge di stabilità, a togliere di mezzo, fino a tutto il 2017, la modesta penalizzazione economica prevista per chi, pur avendo maturato il requisito contributivo dei 41-42 anni, andava in quiescenza prima dei 62 anni). Ma come si affronterebbe la bomba dell’invecchiamento, destinata a trasformare la struttura stessa della popolazione? In Italia, l’attesa di vita media di una persona di 65 anni (che nel 2015 è pari a 18,6 anni se uomo e a 22,2 se donna), salirà, a metà del secolo, rispettivamente a 22 e a 25,3 anni. Ma ci saranno più over80enni che ragazzi con meno di 14 anni, mentre raddoppierà il rapporto tra gli ultra65enni e la popolazione in età di lavoro. 

Saranno proprio le esigenze del mercato del lavoro a richiedere di lavorare più a lungo; e ciò consentirà di rendere più adeguato il livello dei trattamenti. Non avrebbe senso mandare in quiescenza, magari con un assegno modesto, persone ancora in grado di lavorare. Perché prepararsi ad avere, a breve distanza di tempo, dei vecchi poveri, quando potrebbero non esserlo, se avessero posticipato, da anziani, il pensionamento?