Oggi, 23 giugno, non è il giorno dei Santi Crispino e Crispiniano, non si combatte nessuna storica battaglia ad Azincourt, ma se la Corte Costituzionale, nell’esprimersi sul ricorso riguardante il blocco dei contratti della Pa, decidesse di accoglierlo, i nostri conti pubblici traballerebbero parecchio. Ad avviso di chi scrive, questa volta l’Avvocatura dello Stato (imbeccata dalla Ragioneria generale) l’ha sparata grossa.  Sostenere che una condanna dello Stato aggraverebbe le finanze pubbliche di una trentina di miliardi non è dimostrato, né dimostrabile. Sulla base di quali parametri l’Avvocatura  arriva a determinare una simile cifra, dal momento che non c’è nessun criterio oggettivo, tanto meno alcuna norma di legge  (tranne, forse, per  quanto riguarda l’indennità di vacanza contrattuale) che possano essere presi a riferimento per il rinnovo di un contratto di diritto comune (com’è  anche il contratto di lavoro pubblico)? 

Ecco perché non ha senso fare del terrorismo sul versante dell’impatto finanziario. La linea difensiva corretta è un’altra: non esiste alcuna disposizione di rango costituzionale che imponga di rinnovare periodicamente i contratti di lavoro. Ancora una volta – quasi si trattasse di una sfida aperta alle critiche rivolte alla sentenza n.70/2015 sulla perequazione delle pensioni – relatrice incaricata è Silvana Sciarra. Visti i tempi che corrono, possiamo aspettarci di tutto, compreso un ulteriore caso di “giurisprudenza creativa”, devastante per i conti pubblici, tanto da far ritenere che, nei testi della Carta presenti nelle biblioteche del Palazzo della Consulta, sia scomparso (per un errore di stampa?) l’articolo 81. Ma neppure un Mandrake in toga potrebbe sostenere e dimostrare che il blocco della contrattazione, ancorché  prolungato, violi una qualsivoglia norma costituzionale. 

L’art. 36 Cost. (comma 1) stabilisce che il lavoratore “ha diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla  famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.  È vero: i giudici, chiamati a definire tale trattamento, hanno fatto costantemente riferimento alla retribuzione di base (i cosiddetti minimi tabellari) previsti dai Contratti collettivi nazionali di categoria o di settore produttivo (il cosiddetto meccanismo di estensione indiretta del contratto nazionale). Così, le retribuzioni individuate in rapporto alle tabelle fissate nei Contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative,  costituiscono, in giudizio, il livello minimo vincolante per tutti i rapporti di lavoro di quella categoria o di quel settore. E in Italia esiste una rete contrattuale nazionale che praticamente non lascia scoperto nessun lavoratore. 

In sostanza, con l’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36 Cost. si è giunti al riconoscimento di una forma di salario minimo garantito. Il canone giurisprudenziale  di “retribuzione minima” si è, dunque, storicamente consolidato, diventando di generale applicazione. Ma dov’è previsto che tale retribuzione debba evolvere secondo cadenze temporali?  A noi sembra perfettamente sostenibile la tesi che, rebus sic stantibus, le retribuzioni correnti nel pubblico impiego siano proporzionali alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e soprattutto sufficienti ad assicurare “un’esistenza dignitosa”. Basterebbe  chiedere all’Istat per scoprire che le retribuzioni del pubblico impiego restano, tuttora, mediamente più elevate di quelle dei dipendenti privati. 

Il punto è proprio questo: occorre bloccare sul nascere un’invadenza giurisdizionale sul terreno dei diritti sociali, che non sono assoluti, ma fortemente condizionati dalle risorse disponibili. Sono valutazioni, queste, che non possono essere compiute in termini assoluti, ma necessariamente relativi e quindi in parallelo con il più complessivo assetto delle retribuzioni (che nel pubblico impiego rimangono più elevate anche dopo i blocchi) e delle altre condizioni dei lavoratori dipendenti. Quanto vale – anche sul piano dell’adeguatezza degli stipendi – la stabilità dell’impiego in anni in cui venivano concessi, ai dipendenti privati, miliardi di ore di cassa integrazione? Poi, non dimentichiamolo, il discutibile bonus degli 80 euro mensili è stato riconosciuto anche ai travet, in un’unica soluzione,  sia pure  nell’ambito dei livelli reddituali previsti. 

Poi, c’è un’altra considerazione da affrontare. La Corte Costituzionale si sarà pure accorta che il Paese ha trascorso un lungo periodo di crisi da cui stenta a uscire e che non ha bisogno di essere ricacciato indietro a causa di un’idea fondamentalista del diritto? Sarebbe opportuno, allora, che i “giudici delle leggi”, oggi, rigettassero i ricorsi e  si accontentassero di invitare il Governo a uscire il prima possibile da una situazione oggettivamente d’emergenza e anomala, magari disponendo, con provvedimento a parte, l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale. Del resto, non potrebbero fare altrimenti. 

In materia di rivalutazione delle pensioni c’era sullo sfondo un meccanismo di calcolo applicabile. Ma si può condannare – con una sentenza immediatamente vincolante  –  un Governo a stipulare, in quanto datore, un contratto? Con quali regole e direttive? Con quali oneri? Non scherziamo. Vogliamo tornare, paradossalmente, alla Magistratura del Lavoro, che, durante il Fascismo, sentenziava anche sulle  controversie economiche?