È una storia vecchia, abusata milioni di volte. Si concorre tutti a fare di una leggenda metropolitana una sorta di verità rivelata, perciò da accettare come tale, senza alcuna possibilità di metterla in discussione. La si ripete all’infinito, fino a quando tutti si mettono a fare la stessa cosa acriticamente, all’insegna del “se lo dicono tutti sarà vero”. Da noi l’ultimo caso di “luogocomunismo” si sta esibendo in materia di pensioni.
Nei talk show di regime – lo sono tutti – diventa il quesito di partenza: “Come rendere flessibile il pensionamento ora rigido come uno stoccafisso per colpa della perfida Fornero che ha impedito agli italiani di andare in pensione?”. L’assunto è uno solo: le regole del pensionamento previste dalla riforma Fornero del 2011 sono troppo rigide, per cui si pone l’esigenza di introdurre nel sistema degli antidoti di flessibilità. È sbocciato così un florilegio di possibili soluzioni, puntualmente riassunte, ieri, su ben due pagine del più autorevole quotidiano economico, Il Sole 24 Ore.
Si va dalle ipotesi di pensionamento progressivo organizzato sulla base di una forma di part-time lavoro/pensione, con l’aggiunta paternalistica dell’anziano che accoglie e addestra un giovane occupato, per arrivare all’ultima delle trovate originali: quella del ricalcolo con il metodo contributivo delle pensioni liquidate con il retributivo, allo scopo di far loro espiare il peccato originale di una presunta condizione di privilegio.
Il caposaldo dell’offensiva flessibilista, però, poggia sul progetto di legge che sta andando per la maggiore, anche per l’autorevolezza di chi lo ha presentato (il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, e il sottosegretario Pier Paolo Baretta). L’impianto del provvedimento – ne abbiamo parlato ampiamente su queste pagine – è il seguente: presi come punto di riferimento i 66 anni del trattamento di vecchiaia con 35 anni di contributi versati o accreditati, l’esercizio del diritto può avvenire all’interno di un range che va da 62 a 70 anni, con una penalizzazione o un incentivo del 2% l’anno a seconda che si anticipi o si ritardi la quiescenza, per un massimo, in ambedue le direzioni, dell’8%.
Basterebbe sommare 62 e 35 per scoprire la trappola e rendersi conto che si tornerebbe a quella “quota 97” prevista nella legge che recepì il Protocollo sul welfare del 2007, quando Damiano era titolare del Lavoro. Certo, ora sarebbe fissata una penale dell’8% che allora non era contemplata. Ma il vantaggio di andare in pensione prima (avvalendosi in pratica del ripristino di un trattamento di anzianità) non è affatto compensato da una modesta riduzione dell’assegno. Poi, non è vero che la riforma Fornero prevede dei criteri di pensionamento troppo rigidi, tali da precludere l’accesso alla quiescenza se non dopo troppi anni di attesa (per gli esodati) e di permanenza al lavoro (per chi ancora lo ha).
Vogliamo toglierci lo sfizio di esaminare i dati dell’età media effettiva del pensionamento ovvero di quando le persone in carne e ossa sono andate effettivamente in pensione a prescindere da ciò che sta scritto nelle leggi? Considerando la sequenza dal 2009 ai primi mesi del 2015, le nuove regole hanno determinato un incremento importante dell’età media di vecchiaia (per effetto soprattutto dell’unificazione dei requisiti anagrafici di genere), mentre, come vedremo, hanno interessato di soli 9 mesi (da 59 a 59,9 che sale a un anno se si includono anche i primi due mesi del 2015) l’età del pensionamento anticipato, che in prevalenza viene utilizzato dagli uomini, i quali sono, in generale, in grado di far valere il requisito contributivo (ora intorno a 42 anni) a un’età attorno ai 60 anni. In questa circostanza, dal 2010 al 2014, ben 194mila lavoratrici hanno potuto conseguire il trattamento anticipato.
È interessante osservare il trend dell’età effettiva di pensionamento, nel periodo considerato, nei principali settori privati e per le diverse tipologie di trattamento: il dato cumulato di vecchiaia e anzianità/vecchiaia anticipata; i dati distinti e la ripartizione per sesso. L’incremento più importante dell’età effettiva alla decorrenza è – come anticipato – quello concernente le pensioni di vecchiaia, in larga misura dipendente dall’equiparazione (con gradualità accelerata) del requisito anagrafico delle donne a quello degli uomini (con l’aggiunta dell’aggancio automatico all’attesa di vita). Infatti, il dato cumulato di uomini e donne, dal 2009 ai primi due mesi del 2015, aumenta nel complesso di 3,3 anni, da 62,5 a 65,8 (3,4 anni per i lavoratori dipendenti al pari di quelli autonomi, mentre diminuisce leggermente nelle contabilità separate). Diverso il caso della anzianità/vecchiaia anticipata: l’incremento è solo di un anno (da 59 a 60 anni). L’età media alla decorrenza per il mix vecchiaia e anzianità cresce solo di 7 mesi, da 61,2 a 61,9.
Le statistiche di genere aiutano a comprendere gli effetti delle riforme: sempre nel periodo considerato, con riferimento a tutte le gestioni, l’età effettiva di vecchiaia degli uomini aumenta solo di 8 mesi, mentre quella delle donne di 3 anni, quella cumulata di 3,3 anni. Diverso l’andamento dell’età effettiva media per le pensioni d’anzianità/vecchiaia anticipate: l’incremento è di 1,2 anni per gli uomini, 1,4 per le donne; 1 anno il dato complessivo. In sostanza, il ricorso al pensionamento anticipato diminuisce nei numeri, ma non ha visto una sostanziale elevazione del requisito anagrafico che rimane più o meno al livello precedente le riforme più recenti.
Nelle ultime settimane, incrociando i dati dell’età di pensionamento con quelli dell’occupazione, si è scoperto che le coorti over55enni hanno avuto un significativo incremento. Si è gridato subito allo scandalo, al posto di lavoro rubato ai giovani, al blocco del turn over nelle aziende, dimenticando che, all’inizio del secolo, quello di aumentare i tassi di attività effettiva in questo segmento di popolazione (55-65 anni) era stato assunto dall’Ue come un obiettivo virtuoso da realizzare entro un decennio, insieme all’incremento del tasso di occupazione femminile.