“Flessibilità”, una parola che scalda il cuore, che evoca libertà di scelta, che suggerisce soluzioni diverse a seconda delle esigenze di lavoro e di vita. Come tutte le chimere, del resto. Soprattutto quando un concetto “politicamente corretto” si declina insieme alle regole del pensionamento. Poi di modelli flessibili ne esistono molti, magari in competizione tra di loro. Tanto che il presidente dell’Inps ha criticato (perché troppo oneroso e rivolto, sotto mentite spoglie, a rivitalizzare il trattamento di anzianità “superato” grazie alla riforma del 2011) il progetto di legge a prima firma Damiano e Baretta, mentre, in occasione della Relazione annuale, ha avanzato, sia pure in termini generali, una sua proposta di “flessibilità sostenibile” basata su di un solido principio attuariale (“chi va in pensione prima deve spalmare questa cifra su molti più mesi di chi va in pensione più tardi”) e non solo su di un taglio massimo dell’8% (come prevedono i citati esponenti del Pd) per chi varca l’agognata soglia a 62 anni.
Perché, allora, la flessibilità made by Boeri sarebbe sostenibile? Ecco la risposta del presidente dell’Inps: “A parità di montante, ogni anno in meno di lavoro comporta una riduzione di questi pagamenti mensili, tenendo conto della demografia e dell’andamento dell’economia. Posto che le pensioni siano sufficienti a garantire una vita dignitosa, senza comportare l’intervento dell’assistenza sociale, questa è una flessibilità sostenibile, che non grava sulle generazioni future”.
Ma stanno davvero così le cose? Varrebbe la pena di chiedersi che senso avrebbe attestarsi su di una logica di corrispettività di mero stampo assicurativo tra contributi versati e prestazioni, in un sistema a ripartizione, nel quale, cioè, i primi servono a finanziare i trattamenti previdenziali delle generazioni precedenti, mentre le pensioni dei contribuenti di oggi saranno finanziate a opera dei contribuenti di domani. Anche il sistema contributivo continua a “funzionare” a ripartizione (solo gli esteti e gli imbroglioni si azzardano a parlare di “capitalizzazione simulata”). Il meccanismo di calcolo (montante contributivo rivalutato secondo il Pil moltiplicato per i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età del pensionamento) è soltanto un modo (senza dubbio più lineare di quello retributivo “all’italiana”, ma non sempre meno vantaggioso) per determinare l’importo dell’assegno. L’equilibrio del sistema – negli anni a venire anche quando il contributivo andrà pienamente a regime – dipenderà, tuttavia, dal rapporto tra il numero e i versamenti dei contribuenti e le pensioni erogate, ovvero dalla “solita vecchia storia” dell’equilibrio tra entrate (siano esse contributive o fiscali) e uscite (la spesa pensionistica nel suo rapporto con il Pil).
Non si comprende, inoltre, per quale motivo si debba consentire un esodo anticipato, penalizzando, con criteri attuariali, l’importo dell’assegno in relazione agli anni di anticipo, in un Paese che ha ormai introiettato le nuove e più severe regole della riforma Fornero. È insensato prepararsi ad avere, a breve distanza di tempo, dei “grandi vecchi” poveri, quando potrebbero non esserlo, se avessero posticipato, da anziani, il pensionamento.
Le altre proposte riguardanti il cosiddetto pensionamento flessibile, non si misurano, invece, con gli oneri che si renderebbero necessari. Nell’iniziativa politica in corso, il criterio della flessibilità del pensionamento non è assunto solo nel progetto di legge Damiano-Baretta. Anche altri gruppi hanno voluto non essere da meno, sia pure in termini meno scientifici e più accomodanti di quelli di Tito Boeri. Nei fatti, tale impostazione finirebbe per abbassare i requisiti anagrafici e contributivi previsti dalla riforma Fornero, determinando, quindi, effetti economici negativi, stimabili a regime in almeno una decina di miliardi.
Non va dimenticato, infatti, che secondo le regole della contabilità, quando si introduce un vero e proprio diritto soggettivo al pensionamento all’interno di una fascia di età anagrafica compresa in un range di flessibilità diventa necessaria una copertura commisurata all’ipotesi che tutti i futuri pensionati si avvalgano del requisito più ridotto. Altrimenti è richiesta la fissazione di un numero massimo di possibili utenti su cui determinare la copertura finanziaria, superato il quale non è più consentito usufruire del diritto. Una procedura questa che darebbe luogo alle consuete proteste da parte degli esclusi.
Sarà anche per questi motivi che Matteo Renzi gioca con il tema della flessibilità all’insegna del “qui lo dico, qui lo nego”. Quando la Corte Costituzionale costrinse il Governo a fornire un’applicazione (necessariamente) limitata e parziale della sentenza n. 70 sul tema della perequazione automatica, Renzi pensò bene di sviare l’attenzione dei media (i quali non si fecero certo pregare) ipotizzando possibili soluzioni di pensionamento flessibile già nella Legge di stabilità del 2016. Oggi, con l’aria che tira, il premier è divenuto più prudente e più attento alle dinamiche dei conti pubblici.
La Grecia qualche cosa avrà pure insegnato. L’accanimento con cui l’Eurogruppo ha imposto una revisione dell’età pensionabile e un superamento dei prepensionamenti al Governo Tsipras avrà messo in allarme anche il giovane Caudillo. Non sarebbe consentito all’Italia di tornare alla situazione pre-riforma Fornero. Ancora nel 2010, l’età media di coloro che percepirono il trattamento di anzianità era pari a 58,3 anni se dipendenti, a 59,1 anni se autonomi. Più o meno come in Grecia.