Gli ultimi a finire nelle “liste di proscrizione” dell’Inps-LaVoce.Info sono stati i 14mila sacerdoti pensionati del Fondo Clero, il quale ha raggiunto ormai un deficit d’esercizio superiore ai 100 milioni e una situazione patrimoniale “in rosso” per 2,2 miliardi; ciò, nonostante le pensioni erogate (secondo un sistema particolare a prestazioni fisse in relazione all’età del pensionamento e all’anzianità di servizio) siano piuttosto modeste, comprese tra 500 e 600 euro mensili lordi. Eppure, l’Istituto di via Ciro il Grande non perdona: se tali prestazioni fossero ricalcolate con il calcolo contributivo (l’autodafé catartico-vendicativo di Tito Boeri), il 61% dei sacerdoti subirebbe una decurtazione superiore al 50%. Inoltre, l’Inps lascia intendere che un giro di vite a carico dei sacerdoti in quiescenza sarebbe opportuno, dal momento che il 72% di loro percepisce un altro trattamento (spesso da ex insegnante) di importo medio pari a mille euro, a volte con punte fino a 2mila. 



In sostanza, persino un caso come quello dei sacerdoti e degli altri ministri di culto, tutto sommato marginale e anomalo nel mare magnum delle pensioni italiane, dimostrerebbe ancora una volta lo squilibrio denunciato – tra contributi versati e prestazione riconosciuta – nel calcolo retributivo per sua natura rivolto a preservare al pensionato un reddito il più possibile equipollente a quello acquisito nell’ultima fase dell’attività lavorativa. E lo squilibrio riguarderebbe l’importo dell’assegno al momento della sua liquidazione e, di conseguenza, quello che in sede tecnica viene definito come il tasso di sostituzione (ovvero il rapporto tra la pensione e l’ultimo reddito da lavoro). 



Ma non è questa la causa principale del vero disequilibrio che ha alimentato, nel corso di lunghi decenni, il debito previdenziale e di conseguenza il debito pubblico. Lo scostamento più rilevante (si veda la tabella a fondo pagina) è determinato dal confronto tra la copertura assicurata dai contributi versati e il periodo di godimento della pensione in rapporto all’attesa di vita (includendovi anche la reversibilità). Tale scostamento è tanto più vistoso nel caso dei pensionamenti di anzianità per motivi molto banali: il combinato disposto tra l’età della quiescenza (solitamente inferiore ai 60 anni) e la durata della prestazione (intorno ai 20-25 anni), in un contesto di forte accelerazione dell’attesa di vita.



In pratica, un dipendente privato andato in pensione, col calcolo retributivo, nel 2005 con 35 anni di anzianità contributiva e 58 anni di età anagrafica, poteva contare mediamente su oltre 25 anni di vita residua, avendone coperti, con i propri versamenti, solo 17,3. Il sistema, ancor più generoso in altri casi, gliene regalava otto. Il bonus diminuiva per quanti fossero andati in quiescenza successivamente avvalendosi del sistema misto. 

Essendo la tabella del 2001 (in occasione del primo monitoraggio della riforma Dini) non vi erano incluse le modifiche apportate ai requisiti del pensionamento anticipato dalla riforma Fornero, ma è facilmente intuibile che la gran parte dei trattamenti erogati in precedenza abbiano usufruito del beneficio derivante dallo scostamento tra gli anni del montante contributivo e quelli della vita residua al pensionamento. Non si dimentichi che, ancora nel 2010, l’età media di coloro che percepirono il trattamento di anzianità era pari a 58,3 anni se dipendenti, a 59,1 anni se autonomi. 

Il lettore può agevolmente notare che i trattamenti dei lavoratori autonomi sono praticamente regalati dal sistema, essendo molto ridotta la copertura assicurata dai versamenti (in generale poco più di 5 anni, pari a un quinto della vita residua alla pensione). Anche in tal caso la spiegazione è semplice: a queste categorie è stato applicato il metodo retributivo a partire dal 1990. In precedenza, erano tenute a una contribuzione forfetaria che consentiva, all’atto del pensionamento, l’attribuzione della pensione minima. Praticamente, dal 1990, queste categorie hanno avuto la possibilità di “rinascere a nuova vita” sul piano previdenziale, nel senso che hanno avuto riconosciuta tutta l’anzianità lavorativa, ma il calcolo dell’assegno è stato effettuato con riferimento ai versamenti effettuati dopo la riforma delle loro Gestioni (un cadeau di cui l’Inps-LaVoceInfo non parla). In parole povere, la legge del 1990, votata all’unanimità dal Parlamento, consentì ai lavoratori autonomi in regime retributivo, di farsi una pensione su misura. 

Tornando al caso dei dipendenti privati se, nel 2005, fermi restando i fatidici 35 anni di versamenti, l’età del pensionamento fosse stata di 62 anni, l’arco temporale di vita residua non coperto da versamenti sarebbe stato, nel sistema retributivo, pari a 4,5 anni, ridotti fino a 2 a 65 anni. Quanto ai dipendenti pubblici è sufficiente scorrere la tabella per ritrovare condizioni più vantaggiose. 

Qual è la conclusione che si può trarre da questi ragionamenti? Ad avviso di chi scrive, se è vero che lo squilibrio più consistente non riguarda l’importo del trattamento a fronte dei contributi versati, ma il periodo in cui viene riscosso l’assegno, non avrebbe senso abbassare i limiti dell’età pensionabile com’è intenzione di quasi tutti i gruppi parlamentari in nome di un pretestuoso principio di flessibilità del pensionamento. È vero che il calcolo contributivo per definizione si attesta sui contributi versati, ma le dinamiche demografiche spingono molto in avanti l’aspettativa di vita. 

Ne deriverebbe, di conseguenza, anche un ridimensionamento molto robusto del tasso di sostituzione per chi scegliesse di andare in quiescenza il più presto possibile, fino a mettere a rischio l’adeguatezza del trattamento, in termini crescenti con l’età e le esigenze di vita di una vecchiaia serena e dignitosa.