Carlo Cottarelli ha affidato a un saggio (La lista della spesa: la verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare, Feltrinelli) le idee e le proposte raccolte e formulate nello svolgimento del mandato ricevuto come commissario alla spending review: idee e proposte finite, in generale, in un cassetto. Innanzitutto, quanto si spende in Italia? La spesa pubblica, nel 2013, ammontava a 818 miliardi di euro, un po’ più della metà del Pil e circa 13.700 euro per ogni persona residente.
Di queste somme, 78 miliardi erano interessi sul debito. Di conseguenza la spesa cosiddetta primaria (quella di cui Cottarelli si è occupato) era pari a 739 miliardi. La quota più importante riguardava gli enti previdenziali: 320 miliardi ovvero il 43% del totale. Seguivano le amministrazioni centrali dello Stato (190 miliardi), la spesa delle Regioni (138 miliardi), quella dei Comuni (61 miliardi) e delle “bistrattate” Province (9 miliardi). Chiudevano il conto i 21 miliardi erogati agli enti classificati come “locali”, tra cui le Università.
Dal 2010 “la spesa pubblica è calata in quasi tutte le sue componenti e per importi molto rilevanti”. L’unica componente aumentata – del 10% – è stata quella previdenziale. Anzi, mentre il resto della spesa scendeva di 24 miliardi, quella degli enti previdenziali cresceva di 28 miliardi. Perché si è verificato un siffatto processo nonostante i tagli e le riforme nel frattempo intervenute? “La spesa per pensioni rispetto al Pil – scrive Cottarelli – è tra le più alte al mondo e non solo perché siamo un Paese di vecchi, ma anche per le condizioni, relativamente generose, del sistema di pensionamento applicato per anni in Italia”. Dei 320 miliardi del totale, la spesa per pensioni e liquidazioni era, nel 2013, di 265 miliardi (83%). Il resto era costituito da altre prestazioni sociali (indennità di malattia, di maternità, disoccupazione, ecc.) e altre per cui non si sono pagati i contributi e vengono definite “assistenziali” (pensioni e assegni sociali, di guerra, invalidità civile, ecc.). Così, mentre la spesa per pensioni e liquidazioni era pari al 17% del Pil, togliendo le liquidazioni si scendeva a 255 miliardi e al 16,3% del Pil (nel 2010 era il 15,3%).
Cottarelli si misura anche con la “vecchia polemica” sulla commistione tra la spesa pensionistica e quella assistenziale, facendo notare che, se anche si volesse escludere la seconda (una trentina di miliardi pari al 2% del Pil), la spesa per pensioni in Italia sarebbe comunque tra le più alte in Europa e nel mondo sviluppato. Inoltre, in tutti gli ordinamenti previdenziali è presente una componente assistenziale. La fetta di Pil assorbita dalla spesa pensionistica è cresciuta senza interruzioni per decenni: nel 1990 era il 9%, nel 2000 il 13,5%, nel 2010 il 15,3%, in conseguenza del fatto che la popolazione stava invecchiando più rapidamente di quanto non venisse aumentata in modo corrispondente l’età del pensionamento. Pertanto, “corrispondentemente all’aumento del numero degli ultrasessantenni, cresceva anche il numero dei pensionati, nonostante il graduale, lento aumento dell’età media di pensionamento a seguito delle riforme iniziate negli anni Novanta”.
Cottarelli, poi, fa chiarezza su di un’altra serie di luoghi comuni che riguardano le condizioni di vita dei pensionati; innanzitutto, ricordando che essi sono 16,5 milioni e che si spartiscono 23 milioni di assegni, per cui, in tanti, ricevono più di una pensione. L’altro aspetto significativo è quello del rapporto tra la pensione media e il reddito medio pro capite. Il reddito medio dei pensionati – scrive Cottarelli – è rimasto abbastanza stabile rispetto a quello medio italiano, intorno al 45-50%, dal 1980 al 2007. Successivamente, è cresciuto rapidamente raggiungendo il 58% nel 2012. Il reddito reale degli italiani, invece, si è ridotto di oltre l’11% dal 2007, anche per il forte aumento del numero dei disoccupati (proprio ieri il Fmi ha stimato che l’Italia impiegherà 20 anni a raggiungere i tassi d’occupazione precedenti la crisi).
Sul piano dei valori assoluti il reddito medio di un pensionato era pari a circa 15.500 euro a fronte di un reddito medio italiano di circa 25.500 euro. Ne deriva che il reddito medio del primo equivaleva al 60% del secondo. Le pensioni non sono alte perché neppure gli stipendi lo sono. In Italia l’85% delle pensioni è al di sotto dei 26mila euro lordi. Gli assegni superiori sono solo un paio di milioni. In Germania, però, i trattamenti superiori a tale importo sono soltanto 650mila. Secondo i dati forniti dall’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, per tutte le fasce di reddito inferiori a 55mila euro, la famiglie dei pensionati risparmiano in media circa il 5% in più delle famiglie di lavoratori. Ciò – secondo Cottarelli – suggerisce che “una riduzione delle pensioni al di sopra di un certo livello di reddito potrebbe essere assorbita da una riduzione dei risparmi dei pensionati e non da una riduzione dei loro consumi, quindi dei loro standard di vita”.
Di qui la proposta principale dell’ex commissario alla spending review: una riduzione per le pensioni superiori a 26mila euro ovvero al reddito medio pro capite italiano che colpirebbe solo il 15% dei pensionati. Le risorse provenienti da questa misura – consistente in un contributo progressivo in rapporto al reddito – potrebbero essere utilizzate per pagare una parte degli oneri sociali dei nuovi assunti.
Quanto alla spesa assistenziale, il saggio fa notare l’esplosione dell’invalidità civile (con tassi di crescita del 5% l’anno) e la squilibrata distribuzione territoriale (in prevalenza nel Centro-Sud). Vengono, inoltre, sottolineate due anomalie meritevoli di una razionalizzazione: l’indennità di accompagnamento (circa 13 miliardi) non è sottoposta alla “prova dei mezzi” ed è usata per pagare le badanti; a 70 anni dal termine della Seconda guerra mondiale sono ancora in pagamento assegni a quel titolo. Anche per quanto riguarda le vittime del terrorismo vi sarebbero alcuni accorgimenti da adottare.