Due sono le novità nel campo della previdenza complementare: una positiva e una negativa (anche se quest’ultima non è ancora definitiva). La prima riguarda il decreto ministeriale sul credito di imposta che, come previsto dalla Legge di stabilità 2015, riduce di nove punti (dal 20% all’11%) l’aliquota sui rendimenti allo scopo di favorire investimenti nell’economia reale (il bonus è di sei punti – dal 26% al 20% – nel caso delle casse dei liberi professionisti). La seconda è relativa, invece, all’emendamento che, nella lettura della Camera, ha cassato, nel disegno di legge sulla concorrenza, le norme che avrebbero consentito, tra gli altri aspetti, la portabilità del contributo del datore.
Trattandosi di una norma che – insieme alla possibilità di riscatto della posizione accumulata anche nelle forme individuali e all’ampliamento dell’area dei potenziali destinatari dei fondi negoziali – era rivolta a innalzare la competitività delle forme complementari, è auspicabile che essa venga ripristinata nel corso dell’iter di approvazione del disegno di legge.
Tutto ciò premesso, il settore della previdenza privata a capitalizzazione, ancorché trascurato da anni dal governo e dal legislatore (basti pensare che la revisione della disciplina fiscale sui rendimenti, contenuta nella Legge di stabilità, si pone in controtendenza rispetto agli schemi di tassazione diffusi in Europa), presenta un assetto strutturale e finanziario di un certo rilievo. Alla fine del 2014 le forme pensionistiche complementari erano 496: 38 fondi negoziali (1,9 milioni di aderenti), 56 fondi aperti (oltre 1 milione), 78 piani individuali pensionistici (Pip, con 2,4 milioni di aderenti), 323 preesistenti (650mila aderenti) oltre al fondo residuale presso l’Inps.
Merita una particolare segnalazione il trend dei Pip, dovuto a reti di vendita diffuse in modo capillare sul territorio e remunerate in base al volume di prodotti collocati sul mercato, la cui carenza è invece – ad avviso di chi scrive – il principale limite nell’adesione ai fondi negoziali. I fondi pensione con più di 100mila iscritti erano 11 e raccoglievano quasi la metà delle adesioni complessive. Quelli con meno di mille iscritti (a prova di una certa frantumazione del settore e dell’esigenza di ulteriori accorpamenti) erano 268, in prevalenza fondi preesistenti (con solo l’1% degli iscritti). Alla fine del 2014 aderivano alle forme pensionistiche 6,5 milioni di lavoratori, il 29,4% degli occupati. Tuttavia, considerando gli iscritti al netto di quelli che hanno interrotto i versamenti (un fenomeno accentuato dalla crisi economica) il tasso di adesione rispetto agli occupati si era ridotto al 22,3%.
Il patrimonio delle forme complementari ammontava a 131 miliardi di euro (+12% rispetto all’anno precedente): l’8,1% del Pil e il 3,3% delle attività finanziarie delle famiglie italiane. Nel corso del 2014 sono stati raccolti 13 miliardi (600 milioni in più del 2013). Dei contributi versati, 5,3 miliardi di euro sono arrivati dai flussi del Tfr (l’82% ai fondi pensione negoziali e preesistenti). È noto, poi, che nel 2015 è miseramente fallita l’iniziativa normativa che consentiva ai lavoratori di destinare il Tfr – per un triennio – in busta paga. Al netto della fiscalità e dei costi di gestione i fondi pensione negoziali e quelli aperti hanno ottenuto rendimenti pari, rispettivamente, al 7,3% e al 7,5%; i Pip “nuovi” del 6,8%. Considerando l’orizzonte degli ultimi cinque anni il rendimento medio annuo si è attestato al 4,8% per i fondi negoziali e al 5,2% per quelli aperti. Per i Pip è stato pari al 4,9%. Nello stesso periodo il tasso di rivalutazione del Tfr è stato pari al 2,4%.
La previdenza complementare, pertanto, anche in anni di profonda crisi, ha vinto la sfida con i rendimenti garantiti del Tfr. Si direbbe, allora, che non ci siano problemi. Questi ultimi, invece, sorgono se si guarda all’allocazione degli investimenti. Complessivamente – fa notare la Covip nella sua relazione istituzionale per il 2014 – gli investimenti destinati al nostro Paese ammontano a 34,5 miliardi di cui 28 sono rappresentati da titoli di Stato. Se si escludono tali tipologie di investimenti e la componente immobiliare, la quota di patrimonio indirizzata all’interno del Paese è limitata: gli investimenti in titoli emessi da imprese italiane ammontano a 2,6 miliardi (3% del totale). Di questi, 1,8 miliardi si riferiscono a titoli di debito e 0,8 miliardi a titoli di capitale.
Alla fine del 2014 gli investimenti dei fondi pensione in titoli di capitale italiani – prosegue la Covip – costituivano circa il 5% del portafoglio azionario complessivo che ammontava a oltre 16 miliardi. La Covip svolge, altresì, l’attività di controllo sugli investimenti degli enti previdenziali di base “privatizzati” (le Casse dei liberi professionisti), le cui attività patrimoniali, alla fine del 2013, ammontavano a 66 miliardi di euro. Considerando gli immobili di proprietà diretta, i fondi immobiliari e la partecipazione in società immobiliari, gli investimenti si attestavano a quasi 20 miliardi, pari al 30% delle risorse. Con riguardo agli altri investimenti, la quota più rilevante delle attività era investita in titoli di debito, pari a 20 miliardi di cui due terzi in titoli governativi. Al netto, dunque, della componente immobiliare e dei titoli pubblici gli investimenti in titoli emessi da imprese italiane ammontava a 2,5 miliardi, il 4% del totale delle attività, di cui 1,4 miliardi in titoli di natura obbligazionaria e 1,1 miliardi di natura azionaria.
A fronte di questi assetti finanziari anche l’Autorità di vigilanza non può fare a meno di notare quanto segue: a) la propensione dei fondi pensione verso il mercato obbligazionario rappresenta un fattore di criticità perché i livelli di rendimento relativi sono ridotti e lo saranno probabilmente anche nei prossimi anni; b) gli investimenti in azioni costituiscono una percentuale assai limitata del portafoglio complessivo, mentre vi sarebbe l’esigenza di canalizzare risorse verso l’economia reale. Si pone, pertanto, quello che la Covip chiama un “salto di paradigma” verso una politica di investimenti coerente con il mutato contesto che, essendo più complesso, richiederebbe un più elevato grado di consapevolezza e di competenza da parte delle strutture di governo delle forme complementari.