Susanna Camusso e Annamaria Furlan si sono confrontate a distanza. La segretaria della Cgil ha rilasciato una lunga intervista al Corriere della Sera, mentre quella della Cisl è intervenuta al Meeting di Rimini. Nelle posizioni espresse dalle segretarie dei due maggiori sindacati non si notano sostanziali differenze. Il che, da un lato, è positivo, perché è importante che Cgil e Cisl abbiano ritrovato un terreno comune d’iniziativa; da un altro punto di vista, tuttavia, le convergenze denotano una profonda sottovalutazione dei problemi reali che il movimento si troverà ad affrontare in un autunno che si annuncia caldo sul piano meteorologico, ma che sarà freddo su quello politico.
Le piattaforme delle due confederazioni sono simili: meno tasse sul lavoro, rinnovo dei contratti pubblici, revisione della riforma delle pensioni del 2011 che Anna Maria Furlan ritiene essere – addirittura – la peggiore d’Europa (ben diverso è invece il giudizio degli osservatori internazionali e degli operatori finanziari). Hanno un bel da dire, a questo proposito, le due signore del sindacato. Ma nell’attuale contesto di finanza pubblica non ha senso manomettere la riforma delle pensioni del 2011?
Su questo argomento circola un luogo comune, che, ripetuto dalla grancassa dei media, si trasforma in una presunzione assoluta che non ammette prova contraria. Si sostiene che le regole della riforma del 2011 sono troppo rigide, come se alle persone fosse ormai inibito di andare in quiescenza se non a età venerande. Ovviamente, queste apodittiche affermazioni sono smentite dai dati ufficiali dei principali settori privati dell’Inps riguardanti l’età effettiva media alla decorrenza della pensione nel periodo tra il 2009 e i primi due mesi del 2015. Nell’arco temporale considerato sono andati in pensione oltre 1.503.000 lavoratori (di cui 745mila di anzianità o di vecchiaia anticipata e 758mila di vecchiaia). Le nuove regole hanno determinato un incremento importante dell’età media di vecchiaia mentre hanno interessato di soli 9 mesi (da 59 a 59,9 che sale a un anno se si includono anche i primi due mesi del 2015) l’età del pensionamento anticipato.
L’incremento più importante dell’età effettiva alla decorrenza è quello concernente le pensioni di vecchiaia, in larga misura dipendente dall’equiparazione (con gradualità accelerata) del requisito anagrafico delle donne a quello degli uomini (con l’aggiunta dell’aggancio automatico all’attesa di vita). Infatti, il dato cumulato di uomini e donne, dal 2009 ai primi due mesi del 2015, aumenta nel complesso di 3,3 anni, da 62,5 a 65,8.
Diverso il caso della anzianità/vecchiaia anticipata: l’incremento è solo di un anno (da 59 a 60 anni). L’età media alla decorrenza per la vecchiaia e l’anzianità nel periodo considerato cresce solo di 7 mesi, da 61,2 a 61,9. Con riferimento a tutte le gestioni, l’età effettiva di vecchiaia degli uomini aumenta solo di 8 mesi, mentre quella delle donne di 3 anni, quella cumulata di 3,3 anni. Diverso l’andamento dell’età effettiva media per le pensioni d’anzianità/vecchiaia anticipate: l’incremento è di 1,2 anni per gli uomini, 1,4 per le donne; 1 anno il dato complessivo. In sostanza, il ricorso al pensionamento anticipato diminuisce nei numeri, ma non ha visto una sostanziale elevazione del requisito anagrafico che rimane più o meno al livello precedente le riforme più recenti. Se si rivedesse al ribasso l’età pensionabile – con il pretesto di una maggiore flessibilità – questa tendenza diventerebbe ancora più frequente.
Che fare, allora? Il viceministro Enrico Morando ha trovato il modo di applicare al sistema pensionistico una sorta di quadratura del cerchio. Secondo l’autorevole esponente del Governo si può fare tutto a condizione di non spendere un euro in più. Si tratta di una soluzione che non esiste, anche se dovessero essere adottate delle rigorose penalizzazioni di carattere attuariale (peraltro rifiutate dai sindacati) per chi anticipa il pensionamento. In questo caso aumenterebbe, infatti, il numero dei pensionati e quindi la spesa pensionistica, che è pur sempre la sola spesa pubblica cresciuta durante gli anni della crisi (di 28 miliardi dal 2010 nonostante i tagli, mentre quella totale è diminuita di 24 miliardi). La sola ipotesi percorribile potrebbe essere quella già studiata da tempo fin da quando era ministro del Lavoro Enrico Giovannini: l’idea dell’anticipo di alcuni anni della pensione per chi perde il lavoro da anziano, con l’impegno della restituzione rateizzata al momento della maturazione del diritto.
Quanto alla sottovalutazione dei problemi, la cui rilevanza è tale da precludere le piattaforme sindacali, anche quelle più moderate, tra qualche giorno, Pier Carlo Padoan dovrà cominciare a intessere la Legge di stabilità per il 2016, mettendo in fila gli impegni e le promesse. Sarà necessario, in primo luogo, neutralizzare le clausole di salvaguardia (sottoscritte da questo Governo e dai precedenti) che si presenteranno puntuali come un esattore delle tasse, pretendendo un incremento delle aliquote Iva e delle accise, se non vi saranno le condizioni per “tacitarle” con tagli di spesa. Poi, occorrerà mettere in nero su bianco qualche taglio delle imposte come annunciato dal premier; nel medesimo tempo, si dovrà rifinanziare, in una qualche misura, la decontribuzione – Anna Maria Furlan lo ha chiesto in via prioritaria, mentre più fredda è apparsa Susanna Camusso – disposta per un triennio a favore delle assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2015, allo scopo di evitare che il controverso aumento dell’occupazione di cui si vanta il Governo (l’Istat è di diversa opinione) si sgonfi alla stregua di una gravidanza isterica giunta al termine.
Poi, come la mettiamo con la Cina? Per adesso è toccato soltanto ai mercati finanziari. Ma se quel mercato rallenta la sua corsa ci saranno guai per tutti. Anche per un Paese come l’Italia che già ha una crescita più stentata delle previsioni.