Non abbiamo dimenticato la gaffe del ministero del Lavoro che, nei giorni scorsi, ha reso noti (per poi doverli smentire) dati sull’occupazione gonfiati come la rana della favola che voleva somigliare ad un bue. Più volte abbiamo pensato (le polemiche sul numero dei cosiddetti esodati lo insegnano) a che cosa sarebbe successo se un incidente come quello in cui è incorso l’ineffabile ministro Poletti fosse capitato ad Elsa Fornero. 

Oggi però dobbiamo essere magnanimi e compiacerci per il verificarsi di una circostanza che sembrava impossibile: le trombe dell’Istat suonano, per la prima volta, la stessa musica delle campane del Governo. I dati sull’occupazione del secondo trimestre dell’anno in corso sono lusinghieri: 180mila occupati in più (+0,8% su base annua) di cui 120mila nel Sud (+2,1%) soprattutto nel terziario (ricordate le lamentazioni di quell’ente inutile di nome Svimez?). 

Crescono – alla faccia di chi vorrebbe anticipare l’età di pensionamento o istituire un assegno assistenziale per gli ultracinquantacinquenni  disoccupati – le coorti degli ultracinquantenni (quasi del 6%); i nuovi occupati italiani  (+130mila) sono in numero maggiore di quelli stranieri (+50mila), una componente che ha riscontrato un segno costantemente positivo anche nei periodi più foschi della crisi. Mentre l’occupazione nell’industria – solitamente altalenante – sembra stabilizzarsi, dopo ben 19 trimestri negativi tornano ad aumentare gli occupati nelle costruzioni (+2,3% e +34mila unità). 

Il trend positivo, in generale, riguarda per ora solo il lavoro dipendente, non quello autonomo. Ne fanno le spese, come nei trimestri precedenti, le collaborazioni, nell’ambito di quel processo di relativa stabilizzazione dei rapporti di lavoro avviati con la riforma Fornero (legge n. 92/2012) e consolidato con il Jobs Act. Benché le nuove misure economiche (la decontribuzione) e normative (il contratto a tutele crescenti) abbiano favorito le assunzioni a tempo indeterminato (+0,7% e +106mila unità su base annua), le aziende non rinunciano ad avvalersi del ben più oneroso contratto a tempo determinato (+77mila unità e +3,3%). La disoccupazione ritorna ai livelli del 2011 (12%), mentre si riduce anche quella giovanile e si contrae il numero degli inattivi e degli scoraggiati.

Che dire, allora? Ci mettiamo a cantare Sarà due volte Natale, e festa tutto l’anno? Immaginiamo che l’opinione pubblica sia un po’ frastornata per la doccia scozzese a cui è sottoposta, quando si parla di lavoro. Certo, questa volta l’Istat ha accompagnato i dati statistici sull’impiego con indicazioni incoraggianti anche per quanto riguarda la crescita economica (dovrebbe essere raggiungibile quel +0,7% delle previsioni e sarebbe la prima volta, dopo anni, che queste si realizzano). Ma il cammino rimane molto incerto. 

Se la terapia più sicura rimane quella di confermare un trend di sviluppo produttivo, molte domande si pongono per quanto riguarda il supporto delle politiche. È  evidente il contributo derivante dal bonus per le assunzioni a tempo indeterminato contenuto nella legge di stabilità, a proposito del quale si temono problemi di copertura già nell’anno in corso, mentre sembra ormai sicuro che quelle stesse agevolazioni non saranno confermate per gli assunti nel 2016. 

Il quadro di finanza pubblica resta incerto, soprattutto se si confrontano gli impegni che gravano sul Governo (il rispetto dei parametri, la neutralizzazione delle clausole di garanzia) con le promesse fatte (la riduzione delle tasse, il rinnovo dei contratti pubblici, per non parlare del vaso di Pandora delle pensioni). Sullo scenario internazionale, poi, non è ancora chiaro l’effetto che produrrà il rallentamento dell’economia cinese.