A torto o a ragione, il Governo Renzi ha dimostrato più volte il coraggio di prendere di petto tanti tabù e luoghi comuni che, nel dibattito politico, sembravano intoccabili, al punto da scatenare dei finimondi se qualcuno avesse osato metterli in dubbio. Per restare nel campo delle politiche sociali e del lavoro, dove sicuramente vi sono stati gli interventi più innovativi, il Governo non ha esitato a liberalizzare i contratti a termine per tutta la durata dei 36 mesi consentiti, a rendere pressoché eccezionale la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato (limitatamente ai nuovi assunti), a “normalizzare” il ricorso al demansionamento, a rendere utili gli esiti dei controlli a distanza anche ai fini disciplinari, a razionalizzare l’intervento degli ammortizzatori sociali rafforzandone gli aspetti connessi alla cosiddetta condizionalità (nel senso che la loro erogazione è condizionata all’impegno che il lavoratore sospeso o disoccupato esprime nei programmi di ricollocazione). Da ultimo, con decreto legge, l’esecutivo ha esteso al settore dei beni artistici e culturali la disciplina dell’esercizio del diritto di sciopero nei sevizi di interesse pubblico, senza nessun negoziato con il sindacato, benché la materia fosse sempre stata trattata con la massima cautela, attraverso laboriosi negoziati e protocolli preliminari di autoregolamentazione.
Ora che “dagli atri muscosi e dai fori cadenti” della passata legislatura sono ricomparsi gli “esodati”, da un Governo, capace di performance audaci, mi attendo una sola risposta a quelle rivendicazioni: “Andate a lavorare”. È noto che, per effetto dei ripetuti interventi del legislatore – ben sei operazioni di salvaguardia – la copertura previdenziale riguarda una platea complessiva che, sulla carta, sale a poco più di 170.000 lavoratori, per un onere, a regime, di circa 12 miliardi. Oggi, con l’appoggio di gran parte delle forze politiche, i vari “comitati” ne rivendicano una settima.
È comprensibile che gli esodati e le altre categorie di aspiranti alla salvaguardia abbiano dei seri problemi ed esprimano – spesso con toni “grillini” – delle preoccupazioni fondate, in un contesto in cui le pensioni sono sempre state, fino a oggi, il passepartout per risolvere tutte le situazioni critiche del mercato del lavoro nelle diverse fasi storiche dell’Italia. Ma perché il Paese vada avanti è giusto che sia spezzato il circuito perverso che, partendo dalla cassa integrazione e passando per la mobilità (o attraverso un’extraliquidazione), arrivava direttamente alla pensione. Questa è la saldatura essenziale della riforma delle pensioni con quelle degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive per come sono affrontate nel Jobs Act.
In questo passaggio sta il salto di qualità che è necessario compiere per lasciarsi alle spalle l’Italia degli accomodamenti a spese della collettività e aprire la strada verso un modello sociale in cui coloro che perdono il lavoro in età matura abbiano la chance di nuove opportunità di impiego (tanto più che le statistiche dimostrano che sono le coorti più anziane a segnalare i migliori trend per quanto riguarda l’occupazione). Certo, una scelta siffatta produce degli effetti collaterali a cui occorre provvedere con equità, pensando agli esodati e non agli esodandi (ovvero a quelli che avevano un problema di copertura prima della fine del 2001 e non quelli che lo potrebbero avere nei prossimi anni). Non si deve ripristinare, però, l’ancien régime del pensionamento facile, quale “vendicatore mascherato” incaricato di sanare tutti i torti che una persona crede di aver subito durante la vita.
Se passiamo in rassegna i requisiti previsti per entrare a far parte delle sei precedenti salvaguardie, non possiamo non riconoscere l’ampiezza dei casi tutelati, tanto che sovente si è ecceduto sia nel numero degli aventi diritto, sia nelle risorse stanziate. Al punto che si sono potuti utilizzare i risparmi per riconoscere nuove coperture. I criteri del sesto intervento di salvaguardia sono ancora lì a gridare vendetta. Il provvedimento del 2014 consentiva di assicurare l’accesso al sistema previdenziale, secondo la disciplina antecedente alla riforma, di un contingente di 32.100 lavoratori, prolungando di un anno (da 36 a 48 mesi successivi all’entrata in vigore delle riforma) il termine entro il quale le categorie di lavoratori già individuate nelle precedenti salvaguardie (prosecutori volontari; lavoratori cessati sulla base di accordi individuali o collettivi; lavoratori in mobilità; lavoratori il cui rapporto di lavoro sia stato risolto unilateralmente) avrebbero dovuto maturare i requisiti pensionistici al fine di accedere al sistema previdenziale con i requisiti antecedenti alla legge Fornero. A tali categorie si aggiungeva, inoltre, quella dei lavoratori che avessero svolto dopo la cessazione del lavoro un’attività non riconducibile a rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (a prescindere dal fatto che avessero comunque lavorato con diverse tipologie di rapporto).
Per la copertura degli oneri il provvedimento attingeva, in buona misura, alle risorse stanziate per le precedenti salvaguardie e in parte non utilizzate (in quanto le effettive richieste di pensionamento si erano rivelate inferiori alle attese), con conseguente riduzione delle platee ivi previste. In particolare, la riduzione delle precedenti platee era pari a 24.000 lavoratori, con un saldo attivo di 8.100 lavoratori (32.100 previsti complessivamente a cui andavano sottratti 24.000 lavoratori derivanti dalla riduzione delle platee previste da precedenti salvaguardie).
Oggi, i vari comitati sostengono che altri 50mila sono fuori “al freddo e alla fame”. Ma vengono sonoramente smentiti dal censimento compiuto dalla Commissione Lavoro del Senato, dal quale risulta quanto segue: “I dati assoluti e le percentuali sono riferiti alle 1645 schede compilate. Dei rispondenti il 41% è nella fascia di età 55-59; il 57% nella fascia 60-64. Persone non rientranti nei sei provvedimenti di salvaguardia emanati a seguito della riforma pensionistica del dicembre 2011: 1177, pari al 71,6%. Diplomati di master universitario o dottorato: 45. Laureati: 227. Diplomati di scuola media superiore 871; di scuola media inferiore o avviamento professionale 444. Il rapporto di lavoro è cessato per licenziamento nel 50% dei casi; per dimissioni o risoluzione consensuale negli altri casi. Hanno goduto di un incentivo all’esodo 848 (51,6%) dei rispondenti. 351 (21%) dei rispondenti hanno svolto una qualche attività lavorativa temporanea dopo la risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato. In più di tre casi su quattro (77,2%) si è trattato di lavoro subordinato”.