. Flessibilità vo’ cercando è ormai il grido di battaglia della “terribile coppia” delle due P: Padoan-Poletti. Matteo Renzi ha ordinato loro di consentire alle nonne d’Italia di godersi il nipotino (nel silenzio assordante delle tardo-femministe) e i due ministri non possono che obbedire almanaccando tra i conti che non tornano. Per adesso, il solo a essere contento è Cesare Damiano, il “santo patrono” degli esodati, al quale hanno promesso, nella prossima çegge di stabilità, una settima salvaguardia. Ma davvero la riforma Fornero del 2011 è una specie di gabbia in cui resteranno imprigionati i lavoratori italiani, impossibilitati ad andare in quiescenza se non a età venerande?
È questa una convinzione diffusa che, come tutti i luoghi comuni, viene accettata senza sforzarsi nemmeno di leggere le norme. Certo, le “uscite di sicurezza” previste nell’articolo 24 del decreto Salva-Italia non sono sempre lineari, ma non prefigurano un percorso di pensionamento rigido e uniforme, completamente sordo a quelle esigenze di flessibilità che un sistema pensionistico deve garantire. Soprattutto, alcuni requisiti anagrafici e contributivi si iscrivono, coerentemente, in un percorso già in vigore prima di quel fatidico decreto legge n. 201 del 2011 (poi convertito il legge n. 241 dello stesso anno a opera di una maggioranza molto ampia tanto alla Camera quanto al Senato).
Si prenda il caso, ad esempio, del pensionamento anticipato. È vero solo in parte che la riforma Fornero ha “superato” il trattamento di anzianità, perché facendo valere il requisito contributivo di 42 anni gli uomini e di 41 le donne (a cui vanno aggiunti alcuni mesi in relazione all’evolvere della speranza di vita) è ancora possibile varcare l’agogna soglia della quiescenza.
Il canale solo contributivo, del resto, era quello più battuto anche in precedenza, rispetto al meccanismo delle quote. Le norme del 2011 hanno esteso l’aggancio con la speranza di vita anche al requisito contributivo, ma hanno assorbito i 12 mesi di “finestra” (a cui erano sottoposti i lavoratori dipendenti) e i 18 mesi (per quanto riguarda i lavoratori autonomi). In sostanza, nel caso del pensionamento anticipato il requisito anagrafico dei 62 anni (peraltro praticamente “sospeso” fino a tutto il 2017) è previsto soltanto agli effetti di una penalizzazione economica molto più modesta (l’1% per i primi due anni, il 2% per quelli successivi, rispetto al limite “virtuoso” dei 62, peraltro non sottoposto all’indice dell’attesa di vita) di quelle che circolano nei progetti dei sostenitori della flessibilità.
Per quanto riguarda la pensione di vecchiaia la riforma ha riconfermato l’aggancio all’attesa di vita già stabilito nel 2010 e si è limitata ad anticiparne l’andata a regime. Certo, il pensionamento delle donne (che sono le maggiori utilizzatrici “forzate” del trattamento di vecchiaia proprio perché le loro storie contributive sono più brevi e discontinue di quelle degli uomini) è stato quello più “penalizzato” in conseguenza della parificazione con il requisito anagrafico degli uomini (nel pubblico impiego l’unificazione fu addirittura “imposta” dall’Unione europea in termini particolarmente accelerati).
Un altro criterio di flessibilità è previsto dal dl n. 201/2011 per quanto riguarda i soggetti inseriti nel sistema contributivo tout court i quali possono accedere alla pensione di vecchiaia facendo valere, oltre al requisito anagrafico previsto, un’anzianità contributiva minima pari a 20 anni sempreché l’importo della prestazione non sia inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (qualche studioso ha proposto che questa disposizione sia estesa anche a chi è sottoposto al sistema misto). È previsto, poi, un meccanismo “premiale” (tramite i relativi coefficienti di trasformazione) a favore dei soggetti che ritardino l’accesso alla pensione rispetto all’età minima stabilita e fino al compimento dei 70 anni.
Al fine di garantire ai lavoratori dipendenti la possibilità di avvalersi di detta flessibilità è stato previsto l’innalzamento a 70 anni (ulteriormente maggiorati, poi, per effetto dell’indicizzazione periodica all’aspettativa di vita) della tutela dell’articolo 18 della legge n.300/1970. A tal proposito, una recente sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite ha introdotto un criterio ambiguo: non si comprende, infatti, se si applichi solo all’Inpgi (la fattispecie riguardava un giornalista) o in generale. Infatti, la sentenza ha stabilito che il proseguimento fino a 70 anni è condizionato al consenso del datore di lavoro. Il che sembra essere proprio estraneo al dettato normativo. E tale da vanificarne la portata innovativa.