Con il varo degli ultimi decreti legislativi si conclude, almeno per quanto riguarda il quadro normativo, il processo di revisione del diritto del lavoro contenuto nel Jobs Act e indicato, in termini di principi e di criteri generali, nella legge delega n. 183/2014 (il destino, forse con un pizzico di malizia, ha voluto che quel provvedimento fosse contrassegnato dal medesimo numero apposto al cosiddetto Collegato lavoro che costituì, nel 2010, il principale intervento del Governo Berlusconi in materia di lavoro).
In sostanza, il diritto del lavoro – a tre anni di distanza dalla riforma Fornero – torna a essere rivoltato come un guanto in molti aspetti importanti. E’ toccato dapprima, già nel 2014, alla liberalizzazione dei contratti a termine (che resta una forma di assunzione tuttora apprezzata dalle imprese nonostante gli oneri sociali di cui è caricata). Poi, è stata la volta del superamento della cosiddetta tutela reale contro il licenziamento illegittimo. Nella nuova disciplina la reintegra nel posto di lavoro, da sanzione in precedenza normale, si trasforma in un provvedimento eccezionale. Il giudice non ha più, inoltre, la possibilità di valutare – sul piano giuridico – la corretta proporzione tra la mancanza del lavoratore e la sanzione disciplinare, mentre – sul versante economico – non può stabilire, in maniera discrezionale, l’ammontare dell’indennità risarcitoria.
E’ tenuto, soltanto, a compiere una semplice moltiplicazione tra il numero degli anni di servizio e quello delle mensilità di retribuzione (entro una soglia minima ed un tetto massimo) dovute, come penale, per ciascun annualità. Si arriva persino (come premessa all’offerta di conciliazione di cui all’articolo 6 del dlgs n. 23/2015) ad auspicare, in una legge dello Stato, che il giudizio sia evitato (come se l’eventuale ricorso al giudice naturale fosse di per sé un comportamento di cui è più opportuno fare a meno).
Viene radicalmente modificato, poi, l’art. 2103 del codice civile che imprigionava lo jus variandi del datore all’interno del vincolo dell’equivalenza delle mansioni da assegnare al lavoratore coinvolto in processi di mobilità interna. Ora, il demansionamento diventa possibile e normale ben oltre quanto aveva già consentito una giurisprudenza consolidata. Per quanto riguarda la problematica dei controlli a distanza, giustamente, da ora, l’utilizzazione dei mezzi audiovisivi potrà valere anche a fini disciplinari, pur in un contesto di controllo sociale, di puntuale informazione individuale e di rispetto della privacy.
Anche sul piano degli ammortizzatori sociali cambiano gli istituti e le prestazioni, ma continua quel processo di razionalizzazione già avviato nel 2012. Come si sa, le parole del legislatore mandano al macero intere biblioteche. I giuristi erano ancora affannati a commentare la legge Fornero quando è cambiato in maniera significativa il contesto legislativo.
La domanda è: sarebbe stato possibile – per di più a poco tempo di distanza – il Jobs Act senza il “passaggio” della legge n. 92 del 2012? Se lo devono chiedere quanti – sul fronte della sinistra più o meno riformista o dei moderati di centro-destra – si sono confrontati, in questi anni, sul tema del lavoro. Ad avviso di chi scrive – che a suo tempo fu molto critico con la legge Fornero – tra i due provvedimenti c’è una linea di continuità. Quasi una staffetta. La legge n. 92 ebbe il compito di aprire dei varchi (insufficienti) nelle convinzioni e nelle ideologie consolidate; nel compiere tale funzione di rottura finì, qualche volta, per esagerare e per non tenere adeguatamente in considerazione la realtà concreta del mercato del lavoro. Certamente il Jobs Act presenta molte più aperture della riforma Fornero; ma le radici di queste innovazioni risalgono, in larga misura, a quel precedente assetto.
Cominciamo rivolgendo lo sguardo al tabù dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ai sensi della legge n. 92/2012 la possibilità di sanzionare il licenziamento ingiustificato con la reintegra era possibile – sia pure in casi eccezionali (“la manifesta insussistenza del fatto”) – anche in materia di licenziamenti economici e di licenziamenti disciplinari a fronte dell’insussistenza del fatto o della previsione di una sanzione conservativa da parte della contrattazione collettiva. Ma la reintegra non era più la regola da applicare normalmente. Il cambiamento, introdotto dal dlgs n. 23/2015 con il contratto a tutele crescenti, è significativo, ma il primo timido e confuso passo era già stato compiuto nel 2012. In noi crea un certo stupore – per come le cose sono mutate nel giro di pochi anni – la circostanza che una parte consistente della sinistra si sarebbe accontentata, adesso, di escludere i licenziamenti collettivi (nel momento in cui diventano individuali) dalla disciplina generale (di carattere obbligatorio) prevista per i recessi (ingiustificati) per motivi economici. Certo, non occorre scomodare le piazze arringate, capelli al vento, da Sergio Cofferati nell’ormai lontano 2002; basta leggere talune dichiarazioni più recenti di qualche esponente democrat per valutare quanta acqua è passata sotto i ponti perché una società civile scopra all’improvviso di possedere, a sua insaputa, la consapevolezza che – per quanto lo si negasse – l’articolo 18 qualche problema lo dava.
Continuiamo a pensare che un momento importante di rottura vada attribuito alla riforma del contratto a termine. Anche in questo caso, però, lo spunto per la liberalizzazione è venuto (limitatamente a 12 mesi) dalla legge Fornero.
Agli osservatori, resta solo da constatare, in conclusione, che le riforme, specie se in materie delicate come il lavoro, non procedono mai in modo rettilineo, ma spesso lungo percorsi trasversali, talvolta persino a zig zag. In altre circostanze finiscono in un strada senza uscita. L’importante tuttavia è valutare se, nonostante questo incedere confuso, il fronte avanza o indietreggia. Per ora è avanzato.