Quello delle pensioni continua a essere uno dei temi più in voga nei talk show televisivi (più o meno tutti uguali). I conduttori – al pari dei più paludati redattori dei quotidiani – non esitano a trasformarsi  (spesso attizzando la ggente che fa da “coro” plebeo in ogni puntata) in implacabili fustigatori dei privilegi e a rivendicare, a destra e a manca, tagli, ricalcoli all’insegna del contributivo e penalizzazioni  per i trattamenti definiti secondo le regole del modello  retributivo. Che nel sistema pensionistico (nonostante le riforme che hanno attuato importanti processi di armonizzazione e di correzione) rimangano tanti aspetti discutibili è senz’altro vero.



Fateci caso, però: non vi capita mai di sentir parlare delle pensioni dei giornalisti (tanto meno di quelle dei direttori di quotidiani). Eppure, ci sarebbero tanti aspetti  da segnalare. 

I giornalisti sono iscritti a una Cassa, l’Inpgi, “privatizzata” ai sensi del dlgs n.509/1994 (è la sola appartenente al regime delle 20 Casse dei liberi professionisti in cui siano iscritti dei lavoratori dipendenti).  L’Inpgi è una fondazione dotata di autonomia gestionale, organizzativa e contabile, ma sottoposta al controllo e la vigilanza dei ministeri del Lavoro e dell’Economia in quanto (al pari delle altre Casse) svolge la funzione di garantire una tutela previdenziale obbligatoria (perciò riscuote i contributi ed eroga le prestazioni). 



La previdenza dei giornalisti dipendenti e liberi professionisti è effettuata attraverso due distinte gestioni: la Gestione sostitutiva per i giornalisti dipendenti e la Gestione separata (il cosiddetto Inpgi 2) per giornalisti liberi professionisti  che esercitano la professione senza vincolo di subordinazione anche sotto forma di collaborazione coordinata e continuativa, ancorché svolgano contemporaneamente, in altre circostanze, anche un’attività di lavoro subordinato. Basta poco per comprendere che i giornalisti più anziani sono iscritti alla prima Gestione, mentre quelli più giovani, all’inizio della professione (magari con tanto di Partita Iva), stanno nel Limbo della seconda Gestione.  A quest’ultima si applicano, praticamente, le medesime regole della Gestione separata dell’Inps e il calcolo contributivo, mentre l’Inpgi applica ancora a tutti gli iscritti il sistema retributivo, indipendente dall’anzianità contributiva posseduta. 



Si tenga conto che dei 53mila giornalisti iscritti all’Inpgi circa il 40% appartiene alla Gestione separata dell’Istituto. Nell’Inpgi1 la contribuzione dovuta è inferiore a quella versata dagli altri lavoratori dipendenti. Vi sono, poi, altre differenze più significative. Per esempio, è consentito alle donne di  andare in pensione di vecchiaia a 60 anni (nonostante la parificazione graduale, nel 2020, al requisito anagrafico degli uomini) al prezzo di una penalizzazione economica (la cui aliquota percentuale è ridotta  fino al momento dell’andata a regime, appunto nel 2020). È ancora vigente il pensionamento di anzianità  con almeno 35 anni di contribuzione e 62 anni di età o con 40 anni di versamenti, a prescindere dall’età. 

In sostanza, mentre nel caso dell’Assicurazione generale obbligatoria (Ago-Inps) ai lavoratori, dipendenti e autonomi, che hanno iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996, si applica il calcolo contributivo (dopo la riforma Fornero tutti gli altri sono nel sistema misto dal 2012), ai giornalisti con rapporto di lavoro subordinato la base pensionabile è suddivisa in quattro periodi, tutti a base retributiva. Le prime tre quote (A, B, C) sono limitate a pochi anni. Soltanto ai giornalisti dipendenti, iscritti dopo il 24 luglio 1998, la retribuzione pensionabile è costituita dalla media annua delle retribuzioni relative a tutti gli anni coperti da contribuzione. Un altro aspetto di miglior favore riguarda l’aliquota di rendimento, pari al 2,66% annuo fino all’importo corrispondente alla media retributiva della categoria dell’anno immediatamente precedente la decorrenza della pensione; poi, per le contribuzioni acquisite dal 21 luglio 1998 si applica la medesima percentuale fino all’importo del minimo contrattuale aumentato del 20% (circa 45mila euro, la somma oltre la quale inizia un décalage di rendimento, come nell’Ago). 

Crediamo, con queste righe, di aver dato un modesto contributo a quel principio  di chiarezza e trasparenza che viene troppo spesso invocato a sproposito.