Siamo alle solite. Anni or sono le vestali del lavoro decente avevano dichiarato guerra ai call center. Queste aziende di servizio erano diventate delle Cayenna, l’ultimo girone del lavoro umano. Contro i call center si scrivevano articoli, saggi, si facevano film di successo. Quel tipo di occupazione era diventato il riferimento dell’indignazione dei salotti, tanto che un solerte ministro del Lavoro – l’ineffabile Cesare Damiano – convocò le associazioni di categoria e le convinse ad accettare dei criteri di classificazione in forza dei quali alcuni settori dei dipendenti diventarono d’acchito lavoratori subordinati. Il risultato fu che gran parte di quelle imprese andarono a “cercar fortuna” all’estero. Così, nei confronti di quelle rimaste in Italia si è avuta, in seguito, più comprensione per le loro esigenze nella gestione del personale, tanto che il settore è rimasto al riparo dei giri di vite a cui la più recente legislazione (dalle legge Fornero al Jobs Act) ha sottoposto i contratti di collaborazione.

Poi nel mirino dei “giustizieri” sono finiti le cosiddette partite Iva; salvo osservare con preoccupazione il vistoso crollo che questa forma d’impiego ha subito (non sempre a favore di una conversione in un contratto a tutele crescenti beneficiato dalla decontribuzione). Ora è la volta del lavoro accessorio, una tipologia di rapporto che lievita a vista d’occhio e che è divenuta la “nuova frontiera” nella denuncia e nella lotta al precariato.

Il decreto correttivo del Jobs Act (dlgs n.185/2016, di recente pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) ha inasprito i criteri dei voucher (lo strumento di retribuzione, appunto, del lavoro accessorio) allo scopo di evitare gli abusi più frequenti. È stato introdotto, infatti, un obbligo di comunicazione (tramite posta elettronica e sms) all’ispettorato nazionale del lavoro locale, 60 minuti prima dell’inizio della prestazione, mentre in precedenza per tale comunicazione era previsto un arco temporale non superiore ai trenta giorni successivi. In agricoltura la comunicazione potrà avvenire nell’arco di tre giorni. In caso di violazione degli obblighi di comunicazione si applica una sanzione amministrativa dai 400 ai 2.400 euro per ogni lavoratore per cui sia stata omessa la comunicazione.

A ogni modo le cifre sono significative: il numero di voucher equivalenti a 10 euro (di cui 2,5 euro di contribuzione sociale) complessivamente venduti dal 2008 al 31 dicembre 2015 è pari a 277,2 milioni per un importo complessivo di 2,8 miliardi di euro. La dinamica dei voucher venduti è stata particolarmente rilevante nel triennio 2013-2015 con incrementi annui attorno al 70%. Nel 2015 i voucher venduti sono stati 115 milioni per un importo complessivo di 1,15 miliardi di euro (dati Inps).

Ricordiamo, brevemente, la normativa che ha consentito l’utilizzo di questa forma di pagamento in tutti i settori in cui si fa ricorso al lavoro accessorio. Il decreto n. 81 del 2015 ha ampliato il raggio di azione al limite di 7.000 euro (netti) annui (2.000 per ogni singolo committente imprenditore o professionista). Anche i percettori di prestazioni di sostegno del reddito possono svolgere attività di lavoro accessorio nel limite di compensi non superiori a 3.000 euro. In agricoltura queste attività sono consentite se svolte da giovani studenti con meno di 25 anni compatibilmente con gli impegni scolastici o da pensionati. Oppure in attività agricole in favore di soggetti che non prevedono di superare un volume di affari di 7.000 euro l’anno.

Per verificare, allora, l’utilizzo corretto dei voucher il criterio fondamentale dovrebbe essere quello previsto dalla legge. Se i lavoratori che sono retribuiti con questa forma di pagamento stanno, per quanto percepiscono, all’interno del perimetro fissato dalle norme, la conclusione non può che essere la seguente: il voucher ha contribuito a diffondere il lavoro, facendo emergere – grazie alla semplicità del suo impiego – prestazioni che in precedenza erano retribuite in nero. A conferma di questa analisi ci sembra sufficiente citare un brano da un recente Rapporto (Work Inps Paper n.3, 2016) dedicato a questa materia: “Nel 2015 i lavoratori hanno riscosso in media 63,8 voucher ciascuno, vale a dire 478 euro netti nell’arco di dodici mesi; il valore della mediana è decisamente inferiore e pari a 29 voucher riscossi, pertanto per metà dei prestatori di lavoro accessorio l’importo percepito in un anno è uguale o inferiore a 217 euro netti. Anche il valore della mediana ha subito modifiche di modesta entità con il trascorrere degli anni: ciò è ulteriore conferma di una diffusione spontanea che ha preferito allargare la base di riferimento anziché aumentare l’utilizzo, rimasto molto marginale nonostante l’allentamento dei tetti previsti dalle norme. Infatti, solamente il 2,2% dei prestatori (circa 30.000) ha riscosso nel 2015 più di 300 voucher, con un guadagno netto nei dodici mesi superiore a 2.250 euro”.

In buona sostanza, pur senza giurare sull’assoluta trasparenza del ricorso al lavoro accessorio (la sua diffusione corrisponde comunque al calo delle collaborazioni, a prova di quanto si diceva all’inizio), ci pare di poter smentire che esso possa essere sostitutivo di lavoro stabile a tempo indeterminato. Il gruppo più numeroso di prestatori di lavoro accessorio, infatti, è rappresentato da occupati presso altre imprese (29%), ma la maggioranza è rappresentata da precari. Nel dettaglio: 23% disoccupati (età media elevata), 18% che percepiscono ammortizzatori sociali, 14% inoccupati, 8% pensionati e altrettanti che svolgono altro lavoro autonomo, parasubordinato e operai agricoli. 

Insomma, come si legge nel rapporto, «al netto dei pensionati, nella stragrande maggioranza non è tanto un popolo “precipitato” nel girone infernale dei voucher dall’Olimpo dei contratti stabili e a tempo pieno (Olimpo a cui spesso non è mai salito), ma un popolo che, quando è presente sul mercato del lavoro, si muove tra diversi contratti a termine o cerca di integrare i rapporti di lavoro a part-time». Qual è allora il problema? Non sono queste le finalità delle norme istitutive? Se si abolissero i voucher questi lavori scomparirebbero o rientrerebbero nel sommerso.